Rifugio per un appassionato di musica con forte predisposizione alla nostalgia per i tempi trascorsi (anni 50/60/70/80 e anche 90 ed oltre).
Riflessioni rare e casuali sulla musica, il cinema e l'arte delle ultime decadi del novecento e di inizio nuovo millennio.
Lussuoso libro indipendente dedicato all'analisi puntuale e precisa (almeno per quello che ho letto in questi primi giorni) dell'ormai celebre ultimo tour Zappiano in compagnia della cosiddetta "Best Band" datato 1988 e chiamato appunto "Broadway the hardway".
Quel momento della carriera di Frank Zappa è stato uno snodo cruciale (anche perchè proprio alla vigilia del manifestarsi della malattia che lo avrebbe portato via solo qualche anno dopo nel dicembre del 1993) per comprendere e meglio tracciare con altri nuovi dettagli l'intera traiettoria del suo "progetto/oggetto" definitivo. Come molti sanno la straordinaria "Best band" si è sbriciolata all'indomani della conclusione a Genova del tour europeo, lasciando "all'azienda Zappa" solamente i debiti maturati per l'operazione finita male ed i mancati guadagni di un probabile fruttuoso secondo tour americano per l'inverno del 1988. Ma al di là delle recriminazioni di tipo prettamente economico, il modo e le motivazioni per cui quello straordinario ensemble progetto si è dissolto ha forse lasciato una vera cicatrice nel già cinico animo del compositore di Baltimora, allontanandolo definitivamente dall'interazione con altri esseri a sangue caldo, preferendo come soluzione finale un solido rapporto "professionale" con una macchina (Synclavier) ed i suoi software operativi in continua evoluzione. Comunque ... tornando al libro,
il tomo si presente con una bella ed elegante sovracopertina rigida con una serigrafia argentea che ritrare il Nostro in uno dei suoi proverbiali momenti di "direzione" orchestrale, una bella idea per impreziosire (e proteggere) il vero e proprio libro ...
piuttosto voluminoso, che si apre con una pagina che attesta l'unicità della copia in vostro possesso (è stato infatti pubblicato un una tiratura limitata di 400 copie) ...
per poi proseguire con parecchie pagine (224) stampate in un comodissimo carattere per una agevole lettura (per capirci ... non è un piccolo font arial corpo 8) e con altre pagine ricche di belle fotografie (74 per la precisione .. alcune delle quali non proprio facilmente reperibili altrove).
Inutile dirvi che questa pubblicazione è destinata sicuramente a diventare FONDAMENTALE per ogni studioso ed appassionato zappiano (tralascio ovviamente di sottolineare l'interesse per questo oggetto da parte degli attenti collezionisti internazionali).
Quando la voglia di giocare e sperimentare con il suono produce una benefica energia creativa spesso si raggiunge anche il cuore del pubblico, anche se non sempre questo significa necessariamente un successo planetario, quello infatti dipende molto di più dalla quantità e qualità della propria visibilità nei media internazionali. Però è indubbio che riuscire a creare un connubio equilibrato tra ricerca e piacere, tra intelligenza e semplicità è una grande impresa.
Il tedesco Carim Clasmann e l'inglese Galia Durant hanno iniziato a lavorare con i suoni in una dimensione assolutamente originale fatta di elementia custici generati da oggetti tra i più disparati quali pupazzetti per bambini, portaceneri, barattoli di latta e piccoli giocattoli più o meno sonori. Questo senso di leggerezza inevitabilmente "portato in dote" dall'uso di macchine sonore non ortodosse ha contribuito in modo determinante a generare un "sound" unico ed inconfondibile. Per questo motivo fin dalla prima uscita discografica indipendente PSAPP, il gruppo nato dalla collaborazione dei due musicisti sopra citati, ha attirato l'interesse di molti addetti ai lavori e molti giovani ascoltatori interessati proprio all'elemento quasi "ludico" della musica proposta. In momenti di grande tristezza e di difficoltà di spirito, ascoltare melodie elementari declinate con sonorità che ricordano anche momenti migliori (l'infanzia e l'innocenza in generale) probabilmente contribuisce a rendere "simpatico" questo o quel motivetto dei PSAPP (pur senza poterlo banalmente fischiettare, attenzione, perchè in realtà le melodie non sono per nulla "semplici"). Così come il voler accostare il "sound" della band ai telefilm della nuova generazione americana ("The OC", "Nip/Tuck" e "Grey's anathomy") non sempre privi di crudeltà e sostanziale tristezza, è sembrata (a ragione!) una mossa vincente per i produttori televisivi che grazie alle smagate melodie di PSAPP hanno aggiunto un ulteriore elemento originale alla loro proposta televisiva.
L'album di debutto definitivo sul mercato internazionale "che conta" di Clasmann & Durant si intitolava "Tiger, my friend" (2004). Dopo le esperienze di produzione indipendente, il disco si era proposto con una prepotente forza innovativa in grande evidenza, risuscendo enll'intento di incuriosire non poco un pubblico misto, equamente suddiviso tra amanti del semplice ascolto disimpegnato ed esteti della forma creativa e compositiva così saggiamente coniugata nelle sue principali caratteristiche.
Dopo due anni la pubblicazione dell'ancor più brillante "The only thing i ever wanted" (2006) non ha fatto altro che confermare la piacevole circostanza di trovarsi di fronte una bella realtà musicale di cui se ne sentiva davvero la mancanza. Senza poi omettere anche la veste grafica dei lavori personalmente curata dalle splendide immagini "a tratto" opera della stessa Galia che offrono ulteriori motivi di velleità collezionistiche per gli appassionati del genere.
A partire dal 2006 l'attività dal vivo del duo (necessariamente coadiuvati da altri musicisti data la complessità degli arrangiamenti pur nella loro delicatezza e fragile equilibrio acustico) ha confermato quanto di buono era possibile cogliere dalla progettualità proposta. Questo necessario momento di promozione internazionale dal vivo ha forzatamente condizionato la pubblicazione di quello che a tutt'oggi risulta l'ultimo album pubblicato, ovvero quel "The camel's back", che non solo conferma appieno la solida vena creativa dei protagonisti coinvolti, ma la sposta ulteriormente verso una progressiva elaborazione di spazi sonori che non può non precludere a nuove interessanti sorprese per il futuro, magari grazie ad un ulteriore sviluppo meramente sonoro, in grado di integrare ancora più "timbri" non temperati alla sostanziale elettronica di supporto di base sempre efficacemente costruita e calibrata. In questo ultimo disco poi diventano ancora più evidenti (anche se può apparire strano) le comuni passioni musicali di Carim e Galia, ascoltare per credere gli elementi tipici di Tom Waits, The Cure, Eric Satie e Duke Ellington presenti tra le note scanzonate delle bellissime 12 tracce che compongono l'album.
Tra i dischi della prima epoca elettronico-psichedelica, SPACE HYMN - secondo ed ultimo capitolo dell'avventura di di Lothar and the hand people - è sicuramente tra i più sorprendenti ed innovativi.
La band originaria di Denver (ma presto diventata operativa nella multiforme NYC) è qui prodotta da Nick Venet (lo stesso bizzarro produttore che volle Zappa alla Capitol per l'opera orchestrale Lumpy Gravy) e lo spirito psichedelico che ne pervade l'universo creativo viene portato in grandissima evidenza con un uso molto raffinato dei primi sintetizzatori che non tolgono però spazio alla più naturale dimensione sonora degli strumenti tradizionali (chitarre, basso batteria) con una particolarissima attenzione e cura per le parti vocali, sensibilissime e davvero molto ispirate.
Gli episodi più prettamente elettronici sono a dir poco stupendi, soprattutto la visionaria ed ancora oggi insuperata "Wedding night for those who love".
Il senso di desolazione aumenta se per distorta ironia a generarlo è il suono oscuro e senza speranza di una band documentata nel momento che dovrebbe rappresentare l'attimo più "vivo" della propria stessa esistenza ... il palco.
Il perverso umorismo nichilista che pervade questo disco fin dal suo stesso titolo (VITAL) è l'ingrediente essenziale da sopportare per cimentarsi all'ascolto di una delle più straordinarie testimonianze dell'arte musicale degli anni settanta.
Significativamente anche la mutilazione dell'originale roboante nome del gruppo, l'omissione del termine "generator" sembra proprio congiurare verso la nenche tanto velata dimostrazione di totale perdita di energia e dinamismo nel pensiero sonoro di Peter Hammill ed i pochi, infami coorti. La band non "genera" ... ma "de-genera".
Il testo dell'iniziale "Ship of fool" sembra adattarsi perfettamente alla condizione forzatamente ai margini del gruppo e del suo leader indiscusso da sempre:
The captain's in a coma, the lieutenant's on a drunk; the owner's in his cabin with his special friend, the monk; the midget's on the bridge, dispensing platitudes and junk - those wild and special places, those strange and dangerous places, those sad, sweet faces, it's a Ship of Fools.
I quattro (di numero!) applausi che preludono all'oscurità cantautoriale elettrica del capitano comatoso da soli bastano a far venire un brivido di freddo lungo la schiena.
Eppure ...
già, eppure VITAL è invece un disco di straordinaria intensità, un grido deciso e coerente (ma non disperato) di una dichiarazione di intenti, di una rivendicazione orgogliosa di identità.
C'è più luce VERA in un disco così diretto e "senza rete" che non in qualsiasi meraviglioso (apparentemente) spettacolo fiabesco post-progressivo ... con le mille luci della nuova tecnologia a raccontare (in superficie) le storie che servono solo per "intrattenere" il pubblico astante.
Un concerto dei Van Der Graaf (con o senza "generatore") è sempre stata una sfida da entrambe le parti, musicista e pubblico si dividono le responsabilità "intellettuali" del risultato e il fattore di rischio per il pubblico è esattamente lo stesso (solo declinato diversamente) di quello che è presente sul palco.
Nello stile del travolgente momento musicale "a nervi tesi" contemporaneo dell'essenzialità nichilista punk questi Van Der Graaf si offrono ai pochi fedeli appassionati esattamente per quello che sono, alla deriva del mercato certo ... ma non altrettanto delle idee e dell'arte!!!
Nella inquietante solitudine del controluce sonoro caratterizzato principalmente da corde classiche intossicate e distorte (violino e violoncello) mescolate al greve suono di un basso quasi sempre elettricamente saturo e di una batteria spesso anarchica nel tipico stile del suo interprete (Guy Evans) la voce di Hammill non regala niente a nessuno, sputa il senso di solitudine, di prigionia intellettuale, urla e chiama alla riscossa l'armata dei pochi.
Oscura pellicola dai propositi "educativi" che, attraverso il racconto della storia di Alice Stratton (personaggio inventato) e del suo percorso che la porta direttamente nell'inferno della follia, si propone di dissuadere le giovani generazioni dall'usare sostanze stupefacenti varie ed intrattenere dubbie amicizie foriere di promiscuità sessuali giudicate moralmente inadeguate.
Per certi versi assimilabile ai video "di propaganda bellica", questo B movie si fa "apprezzare" adesso, a distanza di tanti anni, per la straordinaria ottusità con cui viene trattato l'argomento.
C'è una cosa che personalmente apprezzo tantissimo, la passione sincera per una musica che sfocia nella convinzione di dover contribuire per quanto possibile alla sua stessa diffusione in tutte le possibili elaborazioni e derive, in modo da ricordarne per sempre l'esistenza e l'importanza culturale. Non finirò mai di apprezzare quindi il labour of love che la spagnola Hall Of Fame sta portando avanti da anni con la preziosa collana UNMATCHED (giunta con questa uscita al suo undicesimo capitolo). Il principale merito di questa operazione in continuo divenire (nonostante alcune pressioni ed inviti a sospendere di fatto l'avventura) è di permettere contemporaneamente alla musica di Zappa una sempre cangiante veste interpretativa e a molti musicisti esordienti di farsi valere a livello internazionale dimostrando abilità, creatività, intelligenza ed ironia applicata a materiale musicale di differente livello di complessità e passione. Progetti come questi, anzichè essere ingiustamente osteggiati nel nome di improbabili violazioni di "diritti" sbandierati come inattaccabili, dovrebbero al contrario essere finanziati e promossi proprio da chi quella musica (originale) la tiene in cantina ... spesso a marcire in attesa del BigOne (avete mai sentito parlare della eterna storia del ROXY & ELSEWHERE Dvd?).
Protagonista assoluto di questo undicesimo volume di Unmatched è il gruppo FILTHY HABITS ENSEMBLE
01 Echidna's arf (of you)
Eccellente inizio per una altrettanto eccellente riproposizione di uno dei temi più cari agli zappiani mid-70's. I fiati - vista la formazione stessa - rappresentano il punto focale della scelta di arrangiamento, ma l'intero lavoro di orchestrazione risulta molto accurato e davvero ben organizzato
02 Don't you ever wash that thing?
Stesso discorso per la tradizionalmente successiva esplosiva coda resa celebre da ROXY & ELSEWHERE. Grazie al certosino lavoro portato avanti dal Filthy Habits Ensemble in questa occasione è possibile apprezzare con maggiore precisione il concatenarsi dei temi e delle singole voci degli strumenti via via coinvolti. Una ottima opportunità per apprezzare il geniale lavoro compositivo e di arrangiamento del Maestro (e per levarsi tanto di cappello per l'operazione messa in atto da questo gruppo di musicisti iberici.
03 Little umbrellas
Intelligente e delicata rielaborazione di uno dei temi più "preziosi" dell'immortale HOT RATS. Qualche volta, ai più frettolosi zappamaniaci, sfugge la delicatezza insita nell'esposizione dello spigoloso tema di questa composizione, forse perchè catturati dal fluido drumming originale del compianto John Guerin e dal basso accattivante di Max Bennett (accoppiata sonora riproposta in modo assolutamente geniale dai dEUS al loro debutto discografico in "Worst Case Scenario"). Eppure proprio nello stesso andamento angolare del tema di Little Umbrellas si nasconde gran parte dell'intelligenza e della innovativa spinta melodica del giovane Zappa ... e bene hanno fatto questi nuovi protagonisti della reinterpretazione zappiana a riproporla con tanta delicata cura e passione.
04 Big Swifty
La routine di WAKA JAWAKA prende elegante forma in questa ennesima riproposizione con la ordinata e composta tessitura armonico ritmica dell'Ensemble che per l'occasione sfoggia anche una notevole sensibilità interpretativa nelle parti soliste. Interessante anche il lavoro di "disturbo sonico" messo in atto dall'altrove eccellente tastierista "guantata" Jo Miramontes ed il suo synth, impegnata a ridisegnare traiettorie noise durante tutta la sezione "free". Pregevole anche il lavoro di contrappunto dell'intera sezione fiati durante il bell'assolo di tromba di Guillermo Calliero. Ordinato ed intelligente il finale nella sua esposizione orchestrale.
05 King Kong Variations
Sette variazioni per la "monster track" zappiana per eccellenza. Sembrerebbe ovvio che, data l'evidente somiglianza strutturale del gruppo la nostalgia per la band del 1988 sia alla base di questa operazione rielaborata dal Filthy Habits Ensemble e quindi le modalità di arrangiamenti ed il "mood" generale delle evoluzioni durante le sette fatiche dedicate al primate zappiano più famoso debbano essere per forza riconducibili all'ultima Best Band. Invece, con sorprendente personalità questi (almeno a me) sconosciuti giovani musicisti spagnoli reinventano completamente quello stesso suono, pur con le stesse audiocromie. Una ennesima dimostrazione di intelligenza e allo stesso tempo del valore istruttivo che le immortali pagine zappiane offrono a musicisti altrettanto intelligenti e desiderosi di crescere e sviluppare il proprio linguaggio ... per citare "parallelamente" il maestro (per l'ennesima volta) questi sono davvero "results of a higher education". Complimenti!
06 Filthy Habits
Registrato dal vivo a Barcellona (come i restanti brani successivi di questo Cd) conferma la qualità dei singoli musicisti (tutti davvero molto molto bravi) e l'accortezza gestione degli arrangiamenti d'insieme. Dopo un oscuro ma efficace drone introduttivo, la band sviluppa con discreta originalità il tema di base di questo classico introverso e cupo capitolo zappiano (si arrischiano anche a cambiare leggermente l'armonia della frase base ... una scelta coraggiosa) che introduce la sequenza di inevitabili assoli dei vari strumenti a fiato. Ma essendo una dimensione live è ancor più apprezzabile la capacità di coinvolgimento emotivo dei singoli musicisti nelle evoluzioni soliste (Liba Villavechia al sax soprano e l'inquietante baritono di Don Malfon sono ottimi esempi di virtuosismo applicato).
07 Dupree's paradise/Mr. Green Genes
Vigorosa versione (solo con qualche leggerissima sbavatura) di questo altro classico mid-70 dei Mothers. Essenzialmente come per il precedente il concetto di tema-solo-tema è la chiave di lettura per questo ulteriore veicolo per soli ed improvvisazione (qui è ancora l'eccellente tromba di Guillermo Calliero ed il tenore di Liba Villavecchia a prendersi il carico di acrobatiche evoluzioni anche noise (sempre comunque molto opportune e misurate). L'intero ensemble gioca a creare un magma sonoro pulsante diretto in maniera ineccepibile da tale El Pricto (sassofonista e clarinettista responsabile dell'intero progetto). Senza soluzione di continuità, ma con grande gusto, il brano si dissolve nel classico Mr Green Genes.
08 Duke of prunes
Una citazione inattesa del tema di New Brown Clouds apre l'ultimo prezioso contributo presente in questa raccolta ed introduce l'esposizione (anche questa molto vigorosa ed energetica) dell'inconfondibile leggendario ed adamantino tema zappiano (complimenti al basso di Sebi Suarez!). A seguire il doveroso spazio per la chitarra di tale Director Wilkins che nell'arco dell'intero lavoro dimostra quanto si possa essere intelligenti nel suonare LO STRUMENTO del maestro senza comunque MAI cercare (spesso goffamente) di emularne stile ed attitudine, bravo!
In conclusione un disco DA AVERE anche per smentire coloro che credono (onestamente, a volte con un buon margine di ragione) che il riproporre per l'ennesima volta delle composizioni zappiane sia solo una operazione sterile ed inutile.
Ancora GRANDI COMPLIMENTI a Luis Gonzales per averci regalato una preziosa incursione trasversale nell'universo sonoro della nostra comune passione artistica.
Per documentarsi correttamente sulla carriera di un musicista così particolare quale è stato FRANK ZAPPA spesso diventano importanti e significativi alcuni tasselli audio raccolti in modo clandestino secondo una pratica comune dall'invenzione del registratore a cassette portatile. Per alcune situazioni infatti, le uscite ufficiali non sono esaustive e non rendono appieno il "momentum" a cui - anche solo vagamente - esse si riferiscono.
Nello specifico, non basta la variopinta e bizarra copertina dell'album THE MAN FROM UTOPIA per raccontarci davvero l'incredibile atmosfera che si respirava la sera di quel 6 luglio del 1982 fuori Milano all'area del Parco Redecesio, attrezzata per ospitare il concerto della band di Zappa. Non bastano nemmeno i resoconti più o meno verosimili e verificabili degli spettatori presenti allo spettacolo perchè talvolta le memorie tendono ad enfatizzare momenti magari realmente poco significativi per lo svolgimento degli eventi stessi.
In soccorso quindi risultano opportune ed utilissime le tanto vituperate regitrazioni "pirata" che hanno in questo caso il merito di restituire con assoluta ed impietosa verità (in una sorta di casuale Frippiano "audio-verité") le dinamiche realmente occorse.
Zappa è reduce dalla brutta serata vissuta pochi giorni prima in Svizzera (1 luglio - Ginevra - La Patinoire des Vernets) dove era stato costretto a sospendere il concerto dopo solo 45 minuti a causa delle intemperanze del pubblico locale (?) evidentemente più impegnato in una gara di "tiro al musicista" con oggetti di varia natura e foggia (questo è effettivamente - ma parzialmente - documentato nel secondo disco di YCDTOSA vol.5) che non interessato alla musica proposta.
A Milano la scena è certamente diversa. Alcune date nel frattempo sono andate relativamente bene, o meglio, sono state portate avanti senza particolari problemi ma evidentemente la tranche finale del tour '82 è destinata a riservare altre spiacevoli sorprese al gruppo ... soprattutto in Italia.
Quella sera quindi il concerto inizia con una ispiratissima "Zoot allures", con un solo zappiano di apertura (nel solito momento strategico utilizzato per ottimizzare il bilanciamento dei suoni sul palco e fuori) che sembra presagire una serata in grande spolvero. Anche le presentazioni del gruppo sembrano essere all'insegna del divertimento e Frank (che ironizza pesantemente sulla quantità di zanzare presenti sul palco ... "welcome to the mosquito heaven!") trova anche il tempo per segnalare la presenza di alcuni amici venuti da Portofino ai quali anticipa che suonerà dei brani espressamente per loro. Ma nonostante tutto sembri filare liscio passano solamente poco più di 10 secondi dall'inizio di "You are what you is" perchè si manifesti il primo sintomo del disagio incombente.
Frank infatti interrompe a quel punto bruscamente la band e si rivolge al pubblico delle prime file prima in inglese ...
... DON'T THROW THINGS ON THE STAGE!... call here the guy and tell them in italian please... IF YOU THROW THINGS ON THE STAGE, PLEASE, THE MUSIC WILL STOP!... DON'T THROW THINGS ON THE STAGE!
poi con il tipico italiano a stelle e strisce ...
... CAPITO?... SEDUTI PER FAVORE!
In realtà immediatamente sotto al palco un gruppo di ragazzi era sostanzialmente più preoccupato di "farsi" che non della musica in sè e non doveva certo essere un gran bel vedere dal palco. Ma considerato poi soprattutto che una volta usate le siringhe ipodermiche per la dose, le stesse venivano criminalmente lanciate verso i muscisti sul palco ... la cosa assumeva anche degli aspetti discretamente critici e preoccupanti per l'incolumità dei protagonisti del concerto. Per non appensantire ulteriormente la situazione comunque Zappa riprende a far viaggiare la macchina musicale cercando con questa mossa di ridare la giusta dimensione e priorità alla presenza della musica (e che musica!) sul palco.
"Mudd club" e "The meek shall inherit nothing" sembrano funzionare ma è solo un'impressione, ancora una volta Frank è costretto ad interrompere la band e riprendere nuovamente l'indisciplinato pubblico delle prime file ...
... YOU SEE THIS BOTTLE HERE?... DON'T THROW THINGS ON THE STAGE!... SEDUTI PER FAVORE!... GO BACK!... IF YOU ...... IF YOU MOVE BACK THEY CAN SIT DOWN!... I KNOW ... BUT IF YOU MOVE BACK THEY CAN SEE!... MOVE BACK!... GO BACK ... THERE MOVE BACK!... OK I'M GONNA TELL YOU IN ENGLISH, ALLRIGHT?... LISTEN TO THIS ...... YOU WILL BE HERE FOR TWO HOURS!... DON'T STAND UP, YOUR LEGS WILL GET TIRED! OK?... NO NO ... JUST BE CONFORTABLE... IF YOU MOVE BACK YOU CAN LEAVE SPACE AND STILL CAN SEE!... UNDERSTAND? IF THEY CAN MOVE BACK!... NO, RELAX, DON'T STAND UP ...... STAND UP AT THE END OF THE SHOW!
detto questo ordina al gruppo di riprendere a suonare dal bridge di "Meek", ma l'atmosfera ormai non è più la stessa ed è essenzialmente la professionaltà dei musicisti che permette allo spettacolo di proseguire nonostante l'evidente inciviltà di pochi spettatori abbia ormai demotivato tutti.
"Joe's garage", "Why does it hurt whan i pee?" (con uno strano cantato solista di Martin, peraltro), "Marqueson's chicken" proseguono senza interruzioni, ma la stessa qualità delle esecuzioni è davvero discutibile anche per i singoli musicisti capaci qui di imprecisioni altrimenti sconosciute. Zappa stesso fatica a riprendere probabilmente il "filo" creatuvo della sua chitarra esibendosi proprio in "Marqueson's chicken" in un assolo poco ispirato e molto statico (forse davvero uno dei suoi meno ispirati del tour). E ancora ... "Fine girl", Zomby woof" (dove per fortuna la chitarra di Frank sembra effettivamente riprendersi e ravvivarsi durante il consueto lungo assolo). "King Kong" perde qualsiasi significato e valore fino a quando inizia la abituale strana "zona" di improvvisazione con Tommy Mars in grandissima evidenza (che distribuisce accenni di famossissime italiche melodie a multiple interpolazioni noise). date le circostanze è comunque ovvio e comprensibile che l'estesa (forse fin troppo!) durata di "King Kong" sia anch'essa il frutto di una semplce esecuzione rutinaria.
Quando riprende la parte "cantata" della scaletta con la sempre verde "Sharleena", l'umore di Zappa sembra leggermente più confortato di qualche minuto prima ed infatti inizia a scherzare con gli organizzatori (Francesco e Tony) a proposito della richiesta di avere una maggiore quantità di ragazze da portare in albergo. Ma il pubblico non sembra aver mutato l'atteggiamento, ed infatti ... ecco l'ennesimo rigoroso stop ...
... ALLRIGHT ALLRIGHT ... NO WAIT A MINUTE!... HEY! HEY!!! ... DO YOU WANT MUSIC?... STOP THROWING THINGS ON THE STAGE!... PUT BACK THE FENCE!... RELAX!... WE WANNA PLAY A NICE CONCERT FOR YOU!... THIS IS NOT "TARGET PRACTICE" ... GET THE PICTURE?
ma stranamente questa volta evidentemente persa la speranza di recuperare la qualità del divertimento Zappa disegna un assolo finalmente minimamente interessante, probabilmente grazie ad un suo rassegnato e definitivo estranearsi dal marasma circostante.
Finito il brano però l'orchestra elettrica esce dal palco probabilmente per provare a dare una pausa alla tensione generale. In effetti, questo espediente favorisce la normalizzazione dell'ambiente e permette a tutti di concludere lo spettacolo (privo però di particolari momenti straordinari e memorabili ... onestamente nemmeno l'altrove funambolico duetto Vai/Zappa di "Stevie's spanking" e la comunque sempre bella "Illinois enema bandit") almeno senza ulteriori manifestazioni di inciviltà.
In tutti questi anni ho letto talmente tante porcherie riguardanti 200 MOTELS, alcune sono puro frutto di immaginazione mentre molte altre sono state provocate da Frank zappa stesso. L'uscita del restaurato film in DVD mi offre l'opportunità - la mia PRIMA opportunità - di correggere una o due delle storie più selvagge relativamente a come è venuto fuori il film e cosa realmente è successo durante le riprese.
Contrariamente a quanto Frank ed i suoi biografi hanno sostenuto, quando venni coinvolto nel progetto non c'era alcun copione o sceneggiatura, solamente una montagna di appunti che contenevano scene 'prevalentemente autobiografiche'. Il mio lavoro - secondo quello che Frank disse - era quello di dare un qualche senso (filmico n.t.d) a tutto quel materiale cercando di costruire una sceneggiatura coerente per produrre un qualsiasi film. E' vero che Frank aveva scritto moltissima musica, buona e meno buona, ma non era stata prevista alcuna orchestra, nessun solista, nessun coro e nessuna coreografia. Il mio ulteriore lavoro sarebbe stato quello di organizzare tutto questo davvero in pochissimo tempo a disposizione. Solitamente per assumere un orchestra a Londra - soprattutto se prevedi di assumerli per una intera settimana - devi fare richiesta almeno un anno prima ... io avevo solamente tre settimane per trovare un'orchestra del livello più alto.
Inoltre, benchè il film fosse un'idea originale riconducibile totalmente a Frank, la MGM/UA non era poi così ben intenzionata ad investire in un simile film anche se le previsioni di spesa si aggiravano intorno alla cifra di mezzo milione di dollari (alla fine il costo fu di 679.000 dollari). In realtà fu proprio la MGM/UA a toglierlo dal ruolo ufficiale di regista per insistere invece sull'affidamento del materiale a "due mani più sicure" per essere certi che dal loro investimento uscisse un prodotto di una qualche qualità. Poco tempo prima era capitato che mi mi fosse stato offerto un contratto con la MGM (che loro stessi avevano poi annullato) e la cosa era di conoscenza dell'allora manager di Zappa Herb Cohen. Sapendo che in passato avevo già lavorato con Frank Cohen mise definitivamente insieme i pezzi del puzzle.
Ancora, è subito apparso evidente che le scene (esattamente come le aveva pensate Zappa) non avrebbero potuto essere filmate in nessun caso con i mezzi tradizionali ... o meglio ... avrebbero anche potuto essere girate, ma in tempi lunghissimi e con grande dispendio di risorse economiche (ma non avevamo nè tempo e nè soldi in realtà) a causa degli effetti visuali previsti. Fui io a suggerire l'uso del nastro video, non Frank, dal momento che stavo già sperimentando con gli effetti video ottenibili utilizzando le prime videocamere a colori a disposizione della BBC solamente da tre anni. All'inizio MGM/UA pose il veto ad una simile idea dal momento che - secondo la loro ragionevole obiezione fatta - il nastro video ("cos'è un nastro video?" mi chiese un responsabile di produzione della MGM/UA una volta) non avrebbe potuto essere obiettivamente proiettato nelle sale cinematografiche.
Fu un mio collega alla Technicolor London che trovò la soluzione. Le attrezzature pre-belliche proprio della Technicolor prevedevano il procedimento dello sviluppo delle riprese effettuate utilizzasse tre differenti negativi (rosso, verde e blu) messi in parallelo, il che risultava analogo alla tecnologia per la suddivisione dei colori utilizzata nella realizazione dei video. Divenne quindi possibile trasferire "singolarmente" gli elementi cromatici delle riprese video in tre differenti pellicole da sviluppare poi con la normale procedura in parallelo. Ed è esattamente quello che poi successe, diventando di fatto il primo film in assoluto ottenuto dal trasferimento su pellicola di nastro video. A quel punto MGM/UA era soddisfatta perchè alla fine avevano effettivamente un film e non un video. Frank era soddisfatto perchè aveva ottenuto tutti gli effetti che aveva voluto velocemente e senza troppe spese. Ma allo stesso tempo non aveva avuto nulla a che vedere con la soluzione del problema ... e non sono nemmeno troppo sicuro che ci abbia capito addirittura qualcosa a riguardo. Comunque spesso ho letto che lui è stato in qualche modo un considerato "pioniere" dell'intero progetto, un errore che è stato ripetuto in un documentario relativo alla realizzazione del film prodotto dalla televisione olandese VPRO.
Nello stesso film, Zappa racconta che venne girato solamente un terzo del copione/sceneggiatura. Una frase questa senza alcun senso. Afferma anche che il regista (ovvero IO) "ha abbandonato la produzione a metà del lavoro" ... cosa decisamente nuova per me così come era capitato per parecchi altri attori e componenti la band. Ancora più inesatto. Wilfred Brambell, famoso attore britannico, rifiutò la parte offerta e Jeff Simmons venne poi sostituito da Martin Lickert nel ruolo di Jeff per il solo motivo che ebbe la temeraria iniziativa di chiamare Zappa un "ego-maniaco". Tutto vero, ma le dichiarazioni di Zappa che sostiene che questi eventi portarono profonde variazioni dell'ultimo minuto al copione sono ancora più assurde.
Ancora secondo il documentario olandese, quando me ne andai, avrei minacciato di cancellare i nastri originali ... il che suona bizzarro dal momento che fui io stesso a completare l'operazione di editing prima di consegnarli alla MGM/UA. Ho anche letto che tutti gli outtakes ed i nastri video originali sarebbero stati cancellati e rivenduti alla MGM/UA come nastri usati per rientrare delle spese eccessive sostenute. Bene, nessuna compagnia del livello della MGM/UA accetterebbe mai dei nastri di seconda mano - anche se cancellati - perchè non li giudicherebbe comunque affidabili. Una enensima "balla" zappiana.
Tutto ciò sembra suonare come se io cercassi di delegittimare quanto fin qui proprio del trascorso Zappiano. E' piuttosto il contrario invece. E' impossibile non avere una obliqua ammirazione per un film che non sarebbe mai stato realizzato se non fosse stato per lui ed il suo curioso talento. Poi, per quanto possa sembrare folle il film è pur vero che propone una certa affidabile visione della realtà della "vita on the road" comune a molte rock-band dell'epoca.Inoltre è un fatto incontrovertibile che siamo qui a distanza di 40 anni ed esiste ancora un consistente interesse proprio per questo film.
Oh, a proposito, ancora secondo alcuni siti web dedicati al film, dal momento che "ero stato licenziato" 0ppure "avevo abbandonato il set" (scegliete voi la versione che preferite) io avrei bruciato i nastri originali del girato ... cosa decisamente strana dal momento che sono gli stessi master che ho davanti a me mentre sto scrivendo queste note.
Ed infine, come risultato di una qualsiasi delle storie appena citate (ancora una volta scegliete voi quale) Frank ed io non ci siamo più rivolti la parola, il che è ancora più strano dal momento che due anni dopo gli eventi, quando Zappa stesso citò in tribunale la Royal Albert Hall per aver cancellato un concerto in cui avrebbe dovuto essere eseguita la musica di 200 Motels, i venni convocato al processo nella Royal Court of Justice come testimone esperto conoscitore di "Zappa". Che sia stato lo stesso Zappa a voler evitare che restassimo in qualche modo amici?
Così 40 anni dopo, sono orgoglioso di essere in qualche modo associato al fil, orgoglioso di aver conosciuto Frank ed orgoglioso di essergli stato amico, nonostante tutto il fango che (principalmente) altri hanno scritto a proposito di quello che "davvero" è accaduto".
La storia di ADRIAN BORLAND è una di quelle che rimane sospesa tra rimpianto e rassegnazione, rabbia e frustrazione perchè è scolpita nelle emozioni individuali di chi ha incontrato la sua arte (e la sua disperazione) nel fragile rapporto che si instaura tra realtà fisicamente tanto lontane tra loro (artista e ascoltatore) ma emotivamente così straordinariamente capaci di vibrare all'unisono.
Borland si è suicidato nell'aprile del 1996 lanciandosi verso il metallico abbraccio mortale della motrice della metrepolitana londinese alla stazione di Wimbledon. Ucciso fisicamente dalla sua malattia, da quella depressione cronica che non lo aveva mai lasciato respirare ... e che lo ha sopraffatto nella dimensione umana, facendone però apparire tutta la sua disperata poesia artistica.
Senza scomodare altri perdenti della triste storia della musica giovanile (Drake e Curtis riassumerebbero perfettamente la traiettoria, ma meriterebbero maggiore attenzione ed argomentazioni) la musica di Adrian Borland dopo gli inizi vigorosi con le sua prime bands quali THE OUTSIDERS e soprattutto gli indimenticabili THE SOUND, si è andata via via "asciugando", privata di tutte le colorature di sapienti arrangiamenti che qualcun altro avrebbe potuto aggungere, per diventare un sussurro di esperienze raccontate con il timido tentativo di essere ascoltato.
E a questi episodi di intimo racconto - solo in studio o davanti a quello che sembra uno sparuto gruppo d'ascolto - che fanno riferimento la maggior parte dei documenti musicali contenuti in questo disco, in questa apocrifa antologia di memorie di vita.
Un ascolto che regala momenti di assoluta intensità con le struggenti interpretazioni di qualche classico dei SOUND, ma soprattutto con la semplicità con cui Borland racconta le sue nuove malinconiche storie.
Un ricordo da custodire, appunto, sospeso tra rimpianto e rassegnazione, tra rabbia e frustrazione ... come forse tanti altri della nostra esperienza personale.
What holds your hope together, Make sure it's strong enough When you reach the end of your tether It's because it wasn't strong enough, I was going to drown, Then I started swimming I was going down, Then I started winning Winning - winning
When you're on the bottom Crawl back to the top Something pulls you up, and a voice you can't stop, I was going to drown, Then I started swimming, I was going down Then I started winning Winning - winning
Una breve, moderna cantata per la terra con suggestioni evocative a cavallo tra il biblico Isaia e le leggende Navajo.
DAVID AXELROD arriva a questo terzo capitolo della produzione solista con una lucidità straordinaria che lo porta automaticamente a scegliere una forma musicale decisamente particolare, ovvero far raccontare la storia del mondo ad un coro misto e ad una orchestra moderna completa, con l'ausilio di straordinari musicisti solisti (Ernie Watts al sax, ad esempio).
Il risultato è questo EARTH ROT, diviso in due principali momenti (ognuno di essi suddiviso in quattro movimenti) che forniscono all'ascoltatore una grande prova di capacità organizzativa del suono e del linguaggio musicale da parte del compositore ed arrangiatore Axelrod.
Una specie di sinfonia a doppia suite per certi versi più vicina alle allora contemporanee "opere pop", venate da una sottile presenza inevitabile di obliqui aromi psichedelici di un'america che cerca di svegliarsi dal torpore del solito abituale "entertainment" per provare qualche possibile nuova strada espressiva.
Un disco bellissimo che merita ascolti e riascolti.
La talpa prosegue - in quell'umano 1972 - a scavare gallerie sempre più profonde e sempre più tortuose. eppure non perde forza evocativa, anzi aumenta quasi esponenzialmente cattiveria e determinazione diventando ancora più elettrica (in compagnia del nuovo tastierista DAVE McRAE).
Seguendo alcune "indicazioni di direzione" fornite da un produttore davvero miope (Robert Fripp) e da un consulente viaggiatore senza confini (Brian Eno) la talpa scava infaticabile in multiple direzioni lambendo verbalmente con caustica certosina ironia concetti "sociali" quali:
politica
Like so many of you I've got my doubts about How much to contribute to the already rich among us How long can I pretend (that) music's more relevant than fighting for a socialist world Someone watching us knows I'm bad black palstic along blue black wall Small square For faces Where dead men can look through Run along and see the prison bath Throw a stone across an empty road You and your friend will be found outside the daydream I've woken up to watch you sleep (Gloria gloom)
e religione
What on earth are you doing God? is this some sort of joke you're playing? Is it 'cause we didn't pray? Well I can't see the point of the words without the action Are you just hot air breathing over us? and overall is it fun watching us all? Where's your son? we want him again Next time you send your boy down here Give him a wife and a sexy daughter - someone we can understand Who's got some ideas we use really relate to we've all read your rules - tried them. Learned them in school then tried them They're impossible rules you've made us look fools Well done God but now please don't hunt me down for heaven's sake! You know that I'm only joking. Aren't I? Pardon me - I'm very drunk but I know what I'm trying to say And It's nearly night time and we're still alone waiting For something unknown Still waiting So throw down a stone or something Give us a sign for Christ's sake (God song)
... e spostando efficacemente ancora più avanti il linguaggio strettamente musicale, sicuramente più "equilibrato" perchè privato dello smagante mellotron di Sinclair sostituito dal lancinante Fender Rhodes appunto di McRae buon "compagno" di audio-distorsioni per la sempre eccellente chitarra di Miller. Quando poi l'"enossificazione" (ante-litteram) giunge a condire il tutto il risultato sonoro ottenuto è assolutamente imperdibile ("Gloria gloom").
LITTLE RED RECORD è uno degli ultimi capolavori del prog inglese, colpevolmente dimenticato in stagioni in cui la forte connotazione politica manifestata dal gruppo è stato motivo di ostracismo culturale (titolo e copertina non lasciano dubbi), ma ancora a distanza di anni lascia una traccia luminosa di ricercata progressione artistica verso il "nuovo" ... o forse verso un "ALTRO NUOVO" dal contorno incerto ... ma fortunatamente l i b e r o.
Un bellissimo disco che lascia una traccia incancellabile, definitiva.
Quanto avanti fosse andato Robert Wyatt rispetto alla già straordinaria dimensione progressiva dei "suoi" Soft Machine probabilmente non era stato abbastanza evidente e chiaro fino a quando nel 1972, raccolti tre vecchi amici della zona Canterburyana, non ha dato alle stampe questo primo capo-lavoro del suo nuovo progetto denominato - in modo evidentemente sarcastico - MATCHING MOLE (che suona in inglese come l'improbabile "Talpa che incontra", ma che letto con accento francese "Machine Molle" significa chiaramente "Macchina morbida" ... vedete voi il nesso).
Le due struggenti ballate della prima facciata del disco (l'eterna "O Caroline" e "Signed curtain") descrivono con straordinaria potenza evocativa un limite, una nuova frontiera dove la forma canzone può incontrare il nuovo jazz elettrico ed l'oscuro nuovo suono progressivo non per raccontare semplici storie d'amore, ma per proporre istantanee di vita vissuta da musicisti nel loro angusto - talvolta claustrofobico - spazio creativo.
This is the first verse The first verse The first First verse And this is the chorus Or perhaps is a bridge Or just another part Of the song that I am singing Never mind It doesn't hurt And only means that I Lost faith in this song 'Cause it won't help me reach you... (Signed Curtain)
Quando poi il suono raggiunge il nuovo livello necessario di "elettricità progressiva", si scatena tutta la carica creativa, tutta la potenza di una consapevole direzione comune e meravigliosamente compatta, resa tale dalla grandissima interazione tra la dolcemente geometrica chitarra di PHIL MILLER, l'aggressivo basso di BILL Mac CORMICK, le magmatiche tastiere di DAVE SINCLAIR ed il drumming unico dello stesso WYATT.
Quel fastidioso senso di possibile "neo snob" della svolta jazz della prima macchina soffice (cfr "Fourth") scompare nelle cupe atmosfere contorte ed allucinate di brani come "Part of the dance" o "Instant kitten" dove la batteria privata dal suono brillante e caratteristico della cordiera del rullante e le chitarre e le tastiere inacidite dall'uso abbondante di distorsioni ed effetti raccontano di inquetudini difficili da ricondurre a quel senso di "intelligente" che invece un'atmosfera "jazz" può - forse - evocare.
Le quattro talpe sembrano musicisti dalle mani sporche di quella terra progressiva mescolata con l'humus jazz incombente ... di quella massa scavata per cercare nuove possibili gallerie per venire allo scoperto e provare ad "incontrare" chiunque all'epoca fosse stato disponibile ad attraversare quel confine concettuale tra il rock ed il jazz elettrico moderno.
E alla fine, superato quel confine la talpa esce allo scoperto ... ma l'impietoso racconto della siderea solitudine della ricerca creativa è tutto nella conclusiva desolata "Immediate curtain" ... provate ad ascoltarla con gli ... "occhi della talpa" e tutto sarà assolutamente CHIARO!
Difficile - se non addirittura impossibile - provare a descrivere il suono di questa band inglese (formatasi nel 1977) che è da considerarsi uno tre i più interessanti esperimenti musicali che Britannia abbia generato negli ultimi trent'anni.
Sebbene non accessibile alle moltitudini, il "sound" dei CARDIACS è qualcosa che rimane unico e straordinariamente innovativo nella sua stessa essenza ed origine.
Gli ingredienti presenti in questo esplosivo cocktail sonoro sono sicuramente facilmente individuabili, ma è del tutto imprevedibile il risultato della loro collisione (perchè non certo di "amalgama" si può parlare) ... un audio BANG spesso devastante per l'ascoltatore impreparato.
Provo ad elencarli in ordine sparso ed in percentuali non definite dal momento che provare a trovarne una qualche costante è impossibile.
Innanzitutto l'energia e l'attitudine animale del primo punk, l'intelligenza e la complessità delle tessiture poliritmiche e multitimbriche di band progressive come Gentle Giant e come il più geometrico Frank Zappa, l'ironia di gruppi sconosciuti quali Split Enz e altri più noti quali Cure, Devo o Madness, la rassegnata malinconia del progressive più oscuro dei Genesis e di una certa "dark wave" (ehm ... adesso è più chiaro il concetto fondante di vero e proprio "guazzabuglio sonoro"?)
Tim Smith, leader indiscusso del gruppo una volta ebbe a definire il "genere musicale" della band con un vocabolo interessante quanto sintetico: PRONK ... ovvero Progressive Punk.
Tutto questa (solo) apparente confusione è poi condita da un atteggiamento visuale decisamente orientato verso una sperimentazione totale, con un look da prendere in cosiderazione a se stante come opera d'arte (dalle iniziali sdrucite divise dell'esercito inglese post-belliche alle pompose uniformi con fascia rappresentativa diplomatica e giacca di velluto dell'ultimo periodo unita a copricapi di foggia quasi papale) caratterizzato anche da una esasperata alterazione dei tratti somatici del volto con pesanti incursioni di cerone, tinte e ciprie varie tali da rendere mostruose e asimmetriche bocche, occhi e anemici, malsani e sofferenti i volti dei protagonisti.
Lasciando comunque da parte l'aspetto immaginifico di questo combo e concentrandosi sulla MUSICA l'avventura e l'esperienza di ascolto nel loro territorio è assolutamente devastante, sebbene anche in questo caso o li si ama al primo colpo oppure li si rifiuta immediatamente. Io faccio parte del primo gruppo e quindi mi trovo assolutamente a mio agio nell'ascoltare qualsiasi loro prodotto, però posso capire che quanto esce dai loro manufatti sia non proprio per i ... "deboli d'udito".
THE SEASIDE (pubblicato nel 1984 ma in realtà raccoglie registrazioni effettuate tra il 1980 ed il 1983) rappresenta un ottimo "entry level" iniziale .... ovvero ... "facciamoci del male SUBITO" in
modo che quella scrematura inevitabile permette immediadamente la "selezione naturale" dell'ascoltatore.
I capolavori di quest'album sono sicuramente tanti ... "Jibber & Twitch", "Gina Lollobridgida", "It's a lovely day", "Ice a spot and a dot on a dog" e soprattutto le inarrivabili
"R.E.S"
e "To go off and things".
Dopo quattro anni esce l'incredibile A LITTLE MAN AND A HOUSE AND THE WHOLE WORLD WINDOW dove onestamente il numero di brani imperdibili raggiunge praticamente la totalità del contenuto dell'album stesso.
Il suono viene qui arricchito da extra fiati, violini e voci con una solennità a volte commovente.
Per fortuna (degli appassionati) solo un anno dopo esce un altro densissimo capolavoro, ovvero ON LAND AND IN THE SEA dove il focus della composizione della band viene perfettamente centrato ed "equilibrato" (?) con una sostanziale maggiore solidità e spessore generale (a scapito della sana caotica aggressivita originale).
Nel 1991 SONGS FOR SHIPS AND IRONS chiude una prima fase "collettiva" del gruppo ... è un disco potente e assolutamente valido sebbene sembri che l'energia devastante della dimensione live sia troppo controllata e troppo soffocata dall'intelligente produzione generale.
E non è un caso se la parabola della prima fase dei CARDIACS si chiuderà successivamente con un eccezionale documento live ... un video (ed un cd) registrato nel giugno del 1990 (ed uscito solo cinque anni dopo) a Salisbury in una ex-chiesa sconsacrata (e come avrebbe potuto essere altrimenti?) convertita a centro culturale ed intitolato ALL THAT GLITTERS IS A MARES NEST.
HEAVEN BORN AND EVER BRIGHT uscito nel 1991 segna il passo ed inequivocabilmente porta la nuova dimensione in quartetto un gradino indietro in termini di scrittura, ma non certo in termini di energia visto che i concerti del periodo diventano "pura adrenalina" sonora in un spesso assordante boato continuo.
E la dimensione live rimane l'unica (e rara) occasione per gli appassionati di potersi confrontare con l'evoluzione dei nuovi Cardiacs ... almeno fino al 1995 quando l'epico doppio SING TO GOD vede la luce.
SING TO GOD è un disco che spinge ancora più sull'acceleratore della potenza fisica, ma recupera efficacemente l'intelligente scrittura (musicale e letteraria) della stagione precedente regalando al mondo musicale il (purtroppo ormai) ultimo capolavoro ... tanto rabbioso e spigoloso quanto straordinariamente impressionante.
Quattro anni dopo esce GUNS che - benchè sulla scia del precedente - non aggiunge nulla alla storia del gruppo (forse un singolo di successo ... ma sempre nella stretta cerchia di fedeli e leali affezionati fans).
Un amaro destino attende comunque il gruppo, e soprattutto la sua mente ispiratrice, quando nel 2008 (alla vigilia della pubblicazione di nuovo materiale e di una consistente ripresa dell'attività live) mentre assisteva ad un concerto dei My Bloody Valentine TIM SMITH rimane vittima di un arresto cardiaco (solita ironia della sorte dal momento che il gruppo inizialmente si chiamava proprio CARDIAC ARREST prima di abbreviarlo in CARDIACS) e di fatto muore per alcuni secondi. Viene riportato in vita grazie alla tecnologia medica, ma le sue condizioni sono (e purtroppo rimangono ancora) critiche, con tutte le funzioni motorie e percettive terribilmente compromesse.
Il gruppo e tutto l'entourage fa quadrato intorno alla famiglia di Tim Smith e sospende ogni e qualsiasi attività, negando anche la minima indiscrezione sulle condizioni di salute del cantante e chitarrista, creando anche un certo disagio ed imbarazzo in tutti gli appassionati della band.
Solamente nel giugno del 2009 la Alphabet Business Concern (storica etichetta/marchio del gruppo) rilascia uno sconsolato comunicato stampa che conferma la precarietà della situazione e chiude ad ogni possibile realistica ripresa dell'avventura musicale del gruppo.
Pochi giorni fa sempre la ABC ha emesso un nuovo comunicato stampa dove viene segnalata l'intenzione di pubblicare quanto rimasto "sospeso" in questi mesi senza però dare ulteriori informazioni in merito.
Comunque vadano le vicende umane del protagonista, rimane una forte testimonianza dello straordinario passaggio di questo spirito artistico grazie a quanto prodotto negli anni (al momento di difficile reperibilità, ma probabilmente destinato a riapparire in qualche modo nel prossimo futuro).
... una piccola incursione nel passato italiano dei CARDIACS
In una sorprendente qualità sonora ecco rimaterializzarsi il fantasma (sic!) dell'omino baffi-e-mosca direttamente dal lontanissimo 1976.
Per un vecchio appassionato esperto, la notevole qualità artistica di alcune delle date del '76 tour era già nota grazie alle numerose registrazioni clandestine disponibili dappertutto, ma risentirne una in versione perfetta, dinamica e meravigliosamente editata ... è stato un problema di contraccolpo emotivo che ha aumentato il sincero rammarico che il responsabile di quelle audio meraviglie non sia più da queste parti.
Premesso quanto sopra, credo sia necessario segnalare a tutti gli amanti dello strumento a quattro corde per eccellenza che la performance di tale Patrick O'Hearn qui documentata ha del sovrannaturale, ed è probabilmente la volta in cui il talento del giovane californiano diventa apprezzabile a-tutto-tondo davvero (per capirci ZINY sembra un "normale" lavoro rispetto a quanto proposto in questo particolare concerto ... you know what i mean).
Stesso discorso vale per Terry Bozzio e la sua travolgente batteria assolutamente incontenibile nella sua "zona Franka" (lo so, è un acrobatico "cheap wordgame" ma ... hey!) che il leader evidentemente gli ha sempre giustamente concesso.
Diventa invece anche estremamente interessante apprezzare il lavoro per nulla marginale dell'unico inglese della band, di quel tale Eddie Jobson che in quella breve stagione alle tastiere riesce a reggere il peso dei complessi arrangiamenti, prendendosi poi delle intense derive soliste con il suo celebre violino elettrico trasparente.
Ai più attenti poi risulterà anche evidente la presenza della cantante BIANCA (Odin) - a cui sono stranamente anche affidate le note di accompagnamento del disco - rimasta davvero per poche settimane, ma senza dubbio in grado di fornire un apporto perfettamente adatto a sottolineare alcune derive funky-soul (in fondo) sempre presenti in un certo Zappa.
Musicalmente parlando il concerto è uno straordinario cocktail di anticipazioni (per l'epoca, ovviamente) ed alcune curiose scelte d'archivio. Alla prima categoria fanno sicuramente riferimento "Tryin' to grow a chin", la travolgente "City of tiny lights" (con un eccellente solo/scat di Ray White) - che verranno poi pubblicate solamente tre anni dopo in "SHEIK YERBOUTY" - ma anche tutti i brani dell'album ZOOT ALLURES (curiosamente pubblicato ufficialmente worldwide PROPRIO QUEL GIORNO ovvero il 29 ottobre 1976) e quindi "Wind up working in a gas station", "The torture never stops" (con un intenso, smagante assolo del "capo"), Black Napkins e "Find her finer". E' anche un momento di grande conflittualità dello stesso Zappa con mezzo mondo discografico americano e quindi di fatto anche tutti i brani che poi - solo due anni dopo - finiranno in ZAPPA IN NY sono da considerarsi delle vere e proprie preziose anticipazioni come "The purple lagoon" (essenzialmente l'intro), "Max needs Women", "Chrissy puked twice" (aka "Titties and beer") e "Honey don't you want a man like me?". Alla seconda categoria invece sono riconducibili "You didn't try to call me" (evidentemente scelta per le doti vocali di Bianca) e l'intera sezione "Rudy wants to buy yez a drink", "Would you go all the way?", "Daddy daddy daddy" e "What kind of girl do you think we are?" pensata per la partecipazione al concerto di Flo & Eddie (cameo poi cancellato per l'improvvisa morte del chitarrista della band dei due ex Mothers avvenuta in circostanze misteriose solo poche ore prima).
"PHILLY 76" aggiunge anche un'inedita cover al lungo elenco di brani ri-proposti da Zappa nella sua carriera ovvero "Stranded in the Jungle" (un classico del rhythm'n'blues portato al successo da The Jayhawks e scritto da Ernestine Smith & James Johnson nel 1956). Curiosamente anche la glam-punk band dei New York Dolls aveva riproposto lo stesso brano due anni prima nel 1974 ... ma ovviamente con uno spirito vagamente differente.
In conclusione un disco che permette una specie di fruttuoso armistizio tra la moltitudine di appassionati zappiani che comincia a non capire la politica delle pubblicazioni fin qui messa in atto dalla casa "madre" (e come poteva essere definita diversamente?) Zappa Family Trust. Grazie a questa eccellente pubblicazione, probabilmente per qualche minuto il mondo e la zappianerie internazionale si dimenticherà dello "still missing" ROXY DVD!
L'imponente meraviglia di "Moon in June" inaugura l'ascolto di questo primo compendio dedicato alla dimensione radiofonica dei SOFT MACHINE nell'arco di tempo tra il 1969 ed il 1971.
Ed in fondo un c'è un buon motivo per inziare questa selezione proprio dalla "canzone appositamente customizzata" da Robert Wyatt ... e non è solamente quello del criterio cronologico dal momento che proprio "Moon in June" è l'unico brano anche cantato dell'intera raccolta ed è di fatto il testamento musicale che l'altrimenti inquieto batterista di Bristol ha poi definitivamente lasciato ad imperituro ricordo tra le passate pieghe di un suono sempre più in evoluzione strumentale, significativa svolta intrapresa con sempre più convinzione dal gruppo che lui stesso aveva contribuito a fondare.
La voglia di grande massa sonora (forse anche dettata dal desiderio di "collettivizzare" l'esperienza musicale tra giovani aspiranti musicisti emergenti) spinge il gruppo ad integrare il proprio essenziale line-up con un ambizioso quartetto di fiati formato dal già precedentemente "arruolato" Elton Dean oltre ai tre giovani talenti Lyn Dobson, Marc Charig e Nick Evans.
Il risultato che emerge immediatamente da queste registrazioni è davvero la dedizione alla scrittura collettiva che il gruppo stava portando avanti in piena coerenza con certe ultra-big band quasi contemporanee (vedi ad esempio il progetto "Centipede").
Ovviamente le qualità dei singoli muscisti componenti la band viene messa comunque in grandissima evidenza (inutile dire che il basso di Hopper e la tastiera di Ratledge non siano semplicemente clamorosi) e la sensazione che SOFT MACHINE come band sia la punta di diamante di una "nuova musica intelligente" giovanile è assolutamente innegabile.
Semmai è altresì curioso pensare che queste stesse registrazioni, altre alla radio-diffusione del momento, abbiano dovuto attendere fino al 1977 per essere apprezzate solo parzialmente su un supporto replicabile (l'album era il leggendario visionario ed immaginifico antologico triplo vinile "Triple Echo"), e addirittura attendere fino alla edizione su cd (a cui mi riferisco) datata 1990 (ad opera dell'indipendente Strange Fruit).
Ovvero ... per fortuna adesso abbiamo recuperato quasi tutti i tasselli di quel percorso artistico in atto, ma a ben pensare la "macchina morbida" era realmente in azione ad una differente velocità dal resto dei contemporanei. Magari QUEL PARTICOLARE MOMENTO di assoluta eccellenza non sarebbe durato poi molto perchè già il "Fourth" benchè pregevole non è più figlio della stessa intenzione comune (e poco dopo anche la pubblicazione di "Fifth" sancirà la definitiva direzione).
Alla fine degli anni '60 essere parte emergente di una cultura musicale proiettata verso nuove frontiere espressive prevedeva anche degli "obblighi".
SPACED è di fatto un'operazione quasi obbligata - appunto - per i Soft Machine visto il ruolo "progressivo" che la loro musica andava guadagnando nell'ambiente artistico contemporaneo. Con ogni probabilità quanto registrato nelle fatiscenti strutture abbandonate sulle rive del Tamigi in quei giorni - e adesso miracolosamente resuscitato grazie alle moderne tecnologie - non sarebbe stato nemmeno lontanamente messo in produzione dal gruppo ormai impegnato nell'evolvere sempre di più il proprio sistema compositivo mescolando acrobaticamente rock e jazz conditi di minimalismo e suggestioni "aliene". Per cui questa volta bisogna "ringraziare" il sistema per aver forzato loro la mano, per aver dato ai tre ragazzotti inglesi un "compitino" sonoro da svolgere, ovvero produrre una determinata quantità di musica sperimentale per accompagnare SPACED, spettacolo multimediale dell'eccentrico artista londinese Peter Dockley in cartellone al Roundhouse della capitale britannica.
Quello che oggi abbiamo la possibilità di ascoltare è una versione abbondantemente "riveduta e corretta" (soprattutto nelle durate e nella scaletta) di quanto registrato con mezzi di fortuna da Bob Woolford, ma rappresenta uno degli episodi creativi più interessanti in assoluto della produzione musicale giovanile dell'epoca.
Le sette sezioni in cui il materiale è stato suddiviso per comodità d'ascolto, dimostrano con grande efficacia quanto forte fosse la voglia di superare certi confini del linguaggio musicale di allora (non dimentichiamoci che quello è anche l'anno di "Abbey Road" dei Fab Four!) e di quanta contaminazione intellettuale fosse presente nella nuova generazione di musicisti che si andava "progressiva-mente" allargando.
Vicino per certi versi a quello che poi sarà musicalmente presente (parzialmente) in "Third", il materiale contenuto in questa raccolta si presenta come una serie di "flussi creativi" sviluppati nella claustrofobica condizione del minimalismo formale, ma allo stesso tempo espansi alla massima possibilità caleidoscopiche dei timbri naturali (ma soprattutto NON NATURALI) della strumentazione usata.
Ed a proposito di cose "alterate", la moderna tecnologia ci permette adesso di scoprire la meravigliosa melodia nascosta nel "reversed" tape che costituisce l'intero brano conclusivo "Spaced Seven" ... invertendo il procedimento digitale la malinconica canzone sconosciuta prende forma da uno sgangherato Wurlitzer ... un gioiello estemporaneo nascosto ma davvero struggente.
Forse per alcuni è addirittura facile ritenere un disco come questo un semplice "narcisistico outing autocompiaciuto" che probabilmente non meritava nemmeno di essere diffuso pubblicamente perchè nato di per sé stesso senza una volontà realmente "artistica" del gruppo, invece - a leggere con attenzione tra la massa informe dei suoni che lo compongono - SPACED è di fatto una delle più lucide istantanee di un behaviour artistico che ha realmente costituito la base principale per l'emancipazione della musica (e di conseguenza dell'ascoltatore) dalle leggi di mercato dell'intrattenimento, portando all'estrema sintesi la volontà di CAMBIARE il concetto stesso di musica portandola ad indispensabile CIBO per il pensiero.
L'autunno del 1970 vede i Soft Machine in stabile quartetto, quello definibile forse "classico" per la svolta jazz del gruppo.
Lasciate le efficaci sperimentazioni con il line-up aumentato da più strumenti a fiato, Wyatt, Ratledge Hopper e Dean danno il via alle "danze" della definitiva consacrazione del jazz progressivo. Hanno già registrato la parte in studio che avrebbe completato la produzione del terzo album (lo storico "Third" appunto) ma sono nuovamente in tour, per mantenere viva la forza creativa del collettivo.
Grides contiene un concerto registrato il 25 ottobre del 1970 al ben noto Concertgebouw di Amsterdam, ma la nota peculiare di questa documentazione ovviamente postuma sta nel riscontrare un certo maggiore "ordine" ed una minore aggressività del gruppo stesso, impegnato apparentemente molto di più ad "ascoltarsi" più che non ad aggredire un pubblico. Probabilmente la consapevolezza di recitare un ruolo sempre più fondante nella nuova scena rock inglese ibridata con il jazz europeo suggerisce inconsciamente ai musicisti un maggior controllo sostanziale nella performance. Ciò non significa assolutamente perdita di estro e creatività, quanto piuttosto una evidente manifestazione di perfetto meccanismo simbiotico tra le quattro menti che finalmente trovano un terreno comune nella dimensione live (cosa che non sempre lo studio aveva saputo mantenere ... vedansi i problemi con la "Moon in June" di Wyatt ed il suo leggendario "fai da te" proprio del "Third" e/o nelle sessioni alla BBC documentate prima in "Triple Echo" e poi, successivamente in "Soft Machine turns on / The Peel sessions").
Questa minor dose di "cattiveria performantica" suggerisce un ascolto più rilassato per apprezzare il grado di maturità e di interplay raggiunto tra i quattro (soprattutto tra Hopper e Wyatt) ed il senso estetico formale del linguaggio in divenire prende il sopravvento sulla carica animale di solo qualche mese prima.
Nell'interminabile (per fortuna) elenco di pubblicazioni postume della macchina morbida, ha un suo peso questa registrazione del 31 gennaio 1970 che, nonostante sia di qualità non proprio eccelsa, permette di approfondire ulteriormente la potenza creativa di quel particolare momento nella scena di un behaviour rock "contaminato" da un approccio decisamente jazz.
Stesso line up (ovviamente) di quello che nel 2000 verrà proposto nel cd "Noisette", ma la carica sonora del gruppo si rivela di gran lunga più selvaggia e violenta in questo set (registrato a Breda in Olanda peraltro solamente quattro giorni prima).
Indubbiamente il suono più grezzo aiuta probabilmente ad "incattivire" maggiormente il "sound" generale del gruppo, ma sembra evidente però una certa quale maggiore determinazione ad una sorta di aggressione sonora nei confronti del pubblico messa in atto dal quintetto.
Il basso distorto di Hopper si fa penetrante ed implacabile nel sorreggere con un suono muscolare ogni evoluzione degli altri, capace comunque di sospendersi a volte magicamente con quel suono dolce, statico e rotondo come una sfera perfettamente levigata appoggiata ad un piano altrettanto perfettamente in bolla. Anche il flauto di Lyn Dobson sembra più "cattivo" e presente nell'economia generale della peformance (e qui "Backwards" ne è l'esempio più illuminante).
Ratledge è semplicemente inarrivabile nelle lunghe cavalcata distorte dei suoi a-solo (una sorta di "Gengis Khan-like attack" ante litteram) in "Moon in June" e nella altrettanto lunga e stravolta versione di "Facelift" dove anche il flauto di Dobson si ritaglia uno spazio apparentemente quasi "anomalo", mentre del tutto inaspettata fa la sua breve comparsa tra gli audio-colori fin qui follemente amalgamati addirittura una armonica a bocca ... decisamente devastante e - ad onor del vero - devastata.
La spettrale voce anemica di Wyatt compare sporadicamente ormai dal caos elettrico ("Hibou Anemone & Bear", "Cymbalism" e la Ayersiana conclusiva "We did it again") ma è solo la traccia sbiadita di un passato dove anche l'elemento vocale raccontava delle storie ... ma evidentemente questo era il tempo delle grida e non certo dei sussurri.
Quando la macchina si mette in moto, magari con un assetto decisamente "sportivo" i risultati sono davvero formidabili.
E'il 4 febbraio del 1970 quando la macchina morbida invade il salone delle fiere di Croydon. il gruppo non è più lo stesso dell'ultima fatica discografica pubblicata l'anno prima) ma vede al suo interno anche due fiatisti della nuova generazione di jazzisti d'albione quali Elton Dean e Lyn Dobson (il primo proseguirà ancora per molti anni l'esperienza nella band, con il secondo - già memorabile componente della band di Manfred Mann - il tutto si rivelerà essenzialmente una valida collaborazione artistica).
Il concerto di quella serata di febbraio dovrà attendere trent'anni per essere completamente documentato su Compact Disc (a parte un frammento della composizione "Facelift" proposto nel terzo album ufficiale del gruppo ed una quantità infinita di dischi clandestini a riguardo).
Nonostante questo incredibile lasso di tempo trascorso, il materiale proposto risulta ancora oggi assolutamente innovativo e coraggioso per l'epoca e sebbene venga posta con maggiore inequivocabile certezza l'intenzione dei muscisti coinvolti di dirigersi verso una forma di jazz elettrico sempre più potenzialmente "intro-contro-verso", la qualità della musica prodotta ha davvero dell'incredibile considerati i tempi.
In grande spolvero è la sezione ritmica (Wyatt e Hopper) come straordinario è il lavoro (sempre troppo spesso ingiustamente dimenticato) di Ratledge alle tastiere, mentre ai due fiati è "semplicemente" affidato il compito di aggiungere l'elemento più "jazzato" nel suono e nell'attitudine all'improvvisazione.
Un ascolto che prevede sicuramente attenzione e concentrazione, ma in cambio offre ancora una grande soddisfazione estetica musicale.
Le cose si sono fatte terribilmente serie nel secondo capitolo della "macchina morbida" e la transizione verso una forma molto più complessa (ma nello stesso tempo autocompiaciuta) dimensione sonora è assolutamente evidente.
Come è immediatamente evidente che la quantità di energia creativa presente nei componenti la band sia debordante ed incontenibile, sospinta da una trance artistica destinata a trasportarli verso acrobatiche ibridazioni sonore di sicuro effetto nell'ascoltatore alla ricerca del "nuovo" e "progressivo" linguaggio giovanile proteso verso una prodigiosa emancipazione intellettuale dalle generazioni precedenti.
E meno male che il flusso creativo della macchina non si ferma nemmeno per un minuto proponendo questo Volume 2 come una insuperata esperienza d'ascolto totale, capace di muovere il cervello in una piacevolissima danza d'attenzione e concentrazione.
A distanza di 32 anni non ho ancora capito in che cosa davvero consista lo straordinario fascino dei primi Soft Machine.
E attenzione, non parlo della deriva jazz progressiva che meritoriamente ha visto il gruppo rappresentare una specie di intelligente perversa fusione di linguaggi differenti tra loro come il jazz, il soul ed il rock. Mi riferisco essenzialmente a quella forma di "psichedelia mutante" che permette ad uno dei più improbabili tra i "power trio" dell'epoca (basso batteria e tastiere) di raccontare storie di laterale esistenza e behaviour in canzoncine dalle melodie apparentemente fragili e lineari sorrette da un potente impianto musicale progressivo "deviato" dalle distorsioni e dalle "mutazioni elettromagnetiche" di strumenti filtrati e manipolati fino all'esasperazione.
Qualunque sia il giudizio artistico, non si può non apprezzare la volontà di andare "oltre", di sperimentare per quanto possibile ogni forma di interazione musicale tra strumenti, personalità e sensibilità dei singoli musicisti coinvolti, uniti verso l'unico obiettivo di spostare i confini del "possibile" nello scenario sonoro (e non solo quello) in ebollizione della gioventù musicale della fine degli anni sessanta.
Suggerire di ascoltare ADESSO i Soft Machine alle generazioni giovani è (per mutuare una citazione da un ben noto "altrove") COSA BUONA E GIUSTA, soprattutto perchè potrebbe essere l'unica speranza per ricordare che per raggiungere nuove frontiere dell'arte bisogna avere anche il coraggio di ricercare nuove soluzioni, cavalcare nuove idee e non avere paura della claustrofobia delle terribili "nicchie" in cui si rischia (anzi si ha le certezza) di essere collocati da generazioni distratte e scarsamente inclini a stimolare le emozioni individuali, preferendo una cultura massificata ed uniformata.
In fondo (ancora metaforicamente) SOFT MACHINE è una pietra, e su quella pietra ...