martedì 17 novembre 2009

JEFF BUCKLEY - Grace (1994)



Un disco di rara potenza espressiva che giustamente è stato riconosciuto a livello mondiale come uno dei migliori prodotti degli ultimi cinquant'anni negli USA.

Alla memoria!

GONG - 1975.09.10 Marquee (1975)



Orfani del fondatore Allen, i GONG mantengono necessariamente fede agli impegni professionali contratti con la Virgin Records promuovendo diligentemente la loro uscita discografica del momento (SHAMAL) con una serie di concerti in formazione "ibrida" ovvero: Didier Malherbe, Steve Hillage, Pierre Moerlen, Mike Howlett, Mireille Bauer, Patrice Lemoine, Miquette Giraudy.

Il repertorio proposto qui è sostanzialmente quello che poi comparirà qualche mese dopo in "Fish rising" del solo Hillage, solo quattro brani del vecchio set GONG storico ("Oily way", "6/8", "The Isle of everywhere" e "Get it inner") e - curiosamente - solo due brani dall'album in promozione ("Bambooji" e "Wingful of eyes").

Inutile sottolineare che l'assenza di Allen lascia al solo Hillage la direzione dell'intero gioco e anche se il buon Steve fa del suo meglio, è evidente la mancanza della "genialità" tipica dell'imprevedibilità del vecchio Daevid. La band risulta così una buona formazione di prog-jazz-rock, eccellente nelle individualità ma molto meno coesa nella sua globalità ... tanto da sembrare più la prima vera band di Steve Hillage che non ciò che rimane della comune di freakoids a cui eravamo abituati dal 1971.



DAEVID ALLEN - Gong on acid 1973 (2006)



Questo è davvero un bizzarro documento (uscito solo recentemente per la collana BANANAMOON OBSCURA voluta e gestita autonomamente dallo stesso Allen).

Si tratta una pubblicazione di "archivio" dove Allen in pieno "acid trip" "manipola creativamente" nastri magnetici stratificando tra loro droni cupi e ossessivi, voci filtrate e misteriose (per lo più di conversazioni "acid-enhanced" e registrate durante le sedute di ANGEL's EGG), frammenti di esecuzioni musicali e di interviste incomplete, in una forma di cut-up continuo e maniacale che per oltre un'ora accompagna l'ascoltatore verso varie zone della psiche individuale stimolate dalle audio-acrobazie percepibili durante l'ardito ascolto.

Difficile giudicare questo esercizio concettuale di Allen come un documento davvero correttamente relato all'attività della band in sè (e non invece una rilettura deviata del suo protagonista e padre concettuale principale), ma è di innegabile fascino la sovrapposizione multipla degli elementi sonori, dell'innumerevole quantità di audio-frattali che, se ascoltati in questo contesto parcellizzato, mettono in chiara luce analitica le componenti essenziali di quel magicko suono.

Questo album è quindi una composizione "astratta" dove l'ormai maturo Allen ri-utilizza tutta la tavolozza di "audio-colori" che hanno reso unico il progetto GONG negli anni del suo massimo splendore onirico e creativo.

DAEVID ALLEN - N'exist pas! (1979)



E dopo la serenità del periodo di Deya, Daevid Allen ritorna sul mercato con un album dall'attitudine quasi ... "beefheartiana", spigoloso, isterico e con le sonorità di base anni luce distanti dalla quiete apparentemente generata al Bananamoon Observatory delle Baleari.

Suoni di batteria riconducibili allo stile del R.I.O, sassofoni in libertà e testi non propriamente "solari", fanno capire fin dai primi minuti che per il visionario menestrello e le sue teiere volanti, i tempi sono davvero cambiati, e sebbene l'ineffabile Professor Sharpstring dichiari che "è evidente ormai la veridicità dell'esistenza del Pianeta Gong, ora si tratta di capire se invece è l'Uomo ad esistere", ribadendo l'origine poetica della filosofia Gong, Allen si muove qui più nella convinta dimostrazione che è proprio LUI a non esistere, permettendosi in questo modo di lacerare il suono e le sue poesie con una libertà radicale mai concessasi fino a quel momento.

Nonostante la cifrà impegnativa dell'opera, che non può essere ascoltato poche volte per essere pienamente compreso, "N'exist pas!" è un album straordinariamente evocativo che va a scandagliare forse nel lato più "oscuro" di ognuno di noi, ma che anche per questo risulta un nuovo ennesimo capitolo riuscitissimo del percorso artistico del suo protagonista principale (aiutato qui anche da un sorprendente CHRIS CUTLER - Henry Cow - in veste di percussionista e consulente alla produzione).

DAEVID ALLEN - Now is the happiest time of your life (1977)



Altro capitolo essenzialmente acustico del visionario post-prog Daevid Allen, con la consueta efficace alternanza di follia ed imprevedibilità misti a serenità ed ironia, un mix reso ancora più suggestivo in questa occasione grazie al maggiore uso di strumenti provenienti da tradizioni musicali differenti (le tabla di Sam Gopal, il sarod o l'arpa di Marianne Oberascher) che si mettono "a disposizione" della scrittura cantautorale del visionario australiano.

Frammenti narrativi della trilogia Gong dei Pot Head Pixies vengono sapientemente alternati ad altre considerazioni e pensieri creativi di Allen che lasciano indelebile una sensazione di realtà parallela verosimile. A volte sembra prevalere uno spirito essenzialmente infantile di gioco fantasioso e divertito (come nella dolcissima "Tally & Orlando meet the Cockpot Pixie"), ma il più delle volte è evidente che dietro la struttura naif delle varie canzoni si nasconde una mente "oltre".

Siamo nel 1977, il punk sta dando le prime picconate al mondo della "certezza della cultura" nella musica (e qualcosa si intuisce anche qui nel brano "See you on the moontower") per cui le fragili surreali ironie di Allen fanno fatica ad interessare le nuove generazioni decise a ridurre in poltiglia l'idea che l'arte giovanile sia ANCHE affermazione culturale e non solo semplice BEHAVIOUR e fisicità.

E' invece significativo il verso che Allen recita nel brano "Why do we treat ourselves like we do?":

"muovi il cervello ... il resto seguirà di conseguenza!"

(forse a ironica parafrasi di quello che nel 1970 era stato l'invito dei FUNKADELIC ovvero "muovi il culo ... il resto verrà di conseguenza!") che però rimarrà evidentemente generalmente disatteso ormai negli anni a seguire da un pubblico che via via è andato perdendo il gusto per la complessità, della ricerca e del piacere della scoperta.

Anche la stessa copertina non è "in linea" con il momento turbolento in divenire ... quel viso sorridente di Allen che invita contemporaneamente a restare in silenzio ed ascoltare non è di sicuro un'iconografia che possa destare anche un minimo interesse nella nuova generazione di punk-freakoids diretti quasi come ipnotizzati al civico 460 di King's Road (il negozio di Vivienne Westwood).

Poi, magari, a ben guardare ... Allen è di gran lunga molto più "punk" dentro di tanti altri ... leggendo con attenzione il testo al vetriolo di "Poet for sale" ... ma comunque un ultima riflessione merita anche "I am", una digressione ambient della durata di oltre 11 minuti e di grande forza meditativa, una dimensione musicale che sembra essere puro suono/pensiero.