venerdì 30 gennaio 2009

TALK TALK - Spirit of eden (1988)



Uno dei dischi a cui sono più legato in assoluto nella mia personale collezione è SPIRIT OF EDEN dei Talk Talk.

Possibile che una band che è stata al top delle classifiche internazionali nella metà degli anni 80 con canzoni (apparentemente) banali e scontate possa annoverare tra i suoi lavori un'opera che meriti tanto riguardo per un'ascoltatore (credo) svezzato come il sottoscritto?

Certo, potrei non essere affidabile, non lo metto in dubbio, ed i miei gusti sono sicuramente discutibili come quelli di chiunque e quindi lungi da me l'idea di voler sembrare una sorta di "guru dell'ascolto" illuminato.

Ma ...

... se per caso non avete mai incrociato sulla vostra strada questo supporto digitale, cercatelo per dargli una chance ... e provate ad ascoltarlo.

Potrà rendervi interminabili e noiosi i successivi quaranta minuti circa, oppure potrà aprirvi delle "vie musicali" davvero nuove ed impensabili fino al momento prima di selezionare il tasto PLAY del vostro lettore cd.

Non esiste un disco altrettanto sconnesso in grado di attirare l'attenzione e capace di dare forma quasi fisica alle emozioni, in grado di catturare frammenti di qualsiasi minimo pensiero e di riportarli alla superfice, facendovi confrontare con emozioni quali rabbia, solitudine, gioia, dubbio, rassegnazione, euforia, delusione e tristezza con una sequenza imprevedibile di cangianti successioni musicali.

La lunga iniziale THE RAINBOW ed i suoi due successivi movimenti EDEN e DESIRE è una inaspettata suite che non lascia scampo e benchè le liriche estremamente ermetiche di Mark Hollis risultino a volte disturbanti nella loro voluta incomprensibilità, il senso di non rassegnata delusione verso qualcosa o qualcuno ti si attacca all'anima e non ti molla più per 23 minuti.
Le chitarre elettrificate pesantemente e al limite della saturazione sanciscono territori dove il "ritmo" delle percussioni è solo un velato scandire del tempo ed i colori sono acustici e prodigiosamente "veri". Uno struggente organo Hammond travolge la scena di tanto in tanto, e le tastiere fanno sentire la loro presenza che è fonte di serenità e mai di tensione (quest'ultima emozione è affidata sempre al colore della chitarra).
E quando alla fine la voce finalmente grida e prende la responsabilità di farsi sentire tutto lo scenario musicale cambia di conseguenza e tutti gli strumenti aggrediscono l'attimo. La rabbia prende il sopravvento sulle mille possibili emozioni fino allora vissute.

La successiva INHERITANCE è una song nella più improbabile delle accezioni, ma in effetti è una bellissima canzone lasciata sospesa sui suoni "che non ci sono" ... ciò che sorregge il tutto sembra essere solo un fragile appiglio per tutti gli strumenti coinvolti che si aggrappano alle tastiere che offrono qualche momento di stabilità. Ma un incerto pianoforte, un oboe, un sax, qualche violino insieme, senza un sostegno solido, creano momenti di una nuova musica da camera totalmente aliena ed eterea. La batteria sussurra il tempo, o forse anche in questo caso scandisce un tempo che NON C'E'e vaga alla ricerca di qualcosa di stabile comunque.
E quando Hollis chiude il sipario con la frase
"Che il cielo ti benedica nella tua pace
Mio gentile amico
Che il cielo ti benedica"
si capisce che è una "dedica all'assenza" e tutto diventa limpido e chiaro.

Il "singolo" I BELIEVE IN YOU fortemente voluto dalla casa discografica, ma altrettanto fortemente osteggiato da Mark Hollis, è un'altra canzone più tradizionale. Una melodia sospesa, appoggiata ad un tappeto di tastiere che miracolosamente si dirada quando appare il "ritornello", rappresentato solo dalle parole sussurrate "spirit" e "how long" con un coro femminile che provene da un altrove (sicuramente più ... "alto").
L'instabilità riprende il sopravvento e rumori e suoni sconnessi ci ricordano che è questo il contesto dove si nasconde la straordinaria poesia di questa canzone. Il video per questo brano rispecchia perfettamente il senso di immobilità e di totale rifiuto commerciale da parte del gruppo (o di Hollis?).
I musicisti sono sovrapposti l'uno sull'altro quasi fossero una sola cosa e quando sul finale Hollis guarda verso un indecifrabile infinito sorridendo verso qualcosa che a noi sfugge ... ecco il senso del genio.

http://www.youtube.com/watch?v=_cIWsQuYVeg


(e le cose non cambiano nemmeno quando loro malgrado vengono chiamati alla esposizione
televisiva promozionale ... ed il documento
http://www.youtube.com/watch?v=Lr0TOwvM0fc&NR=1
lo dimostra)

A concludere questo disco il VERO CAPOLAVORO assoluto di QUESTI Talk Talk ... un brano intitolato semplicemente WEALTH che è insieme una richiesta di aiuto ed una sussurrata canzone d'amore.
Non ci sono esempi simili nella musica rock (ammesso che valga questo termine di riferimento) degli ultimi 50 anni, davvero.
Organo, piano, qualche chitarra ed una voce sommessa raccontano la bellezza e la malinconia del valore della libertà nel sentimento d'amore. Non esiste nulla come l'assolo centrale di organo, che non si può descrivere, posso solo provare ad immaginare come se fosse stato eseguito con ... le dita "spezzate" ... con il dolore e la difficoltà di una simile circostanza perchè quello che emerge da quel momento musicale è solo difficoltà e tensione verso una gioia superiore ... percepita, ma non ancora vinta. L'organo ed un basso accompagnano il finale, in una nuova dimensione quasi sacra, mentre la chitarra acustica solo ogni tanto si fa sentire con qualche nota o accordo che sembrano non voler disturbare il lungo abbandono.

Non vi sarà facile sostenere ancora una nota dopo l'ascolto di un disco simile, se anche solo per un momento sarete stati catturati da una dimensione musicale UNICA, IRRIPETIBILE.

Non sono sicuramente stato in grado di darvi una visione esaustiva di questo disco, ma almeno ho provato a segnalarvi un qualcosa che non può non essere stato ascoltato almeno una volta nella vita di un appassionato di musica.

Davvero.

Questo è sicuramente un disco da portarsi in un'isola deserta SOLO se non si ha paura di sè stessi.

Scusate la lunghezza e la passione.

r.i.p JOHN MARTYN (1948 - 2009)



Non c'è forse molto da dire a proposito ...
ma (per fortuna) resta ancora tanto da ascoltare!

Da adesso però ... siamo tutti un po' più soli.




L'archivista

venerdì 23 gennaio 2009

BRUFORD - Old grey whistle test (1976)



E' proprio vero che non tutte le ciambelle riescono con il buco, e nonostante i nomi coinvolti, qualche volta la performance sembra davvero non decollare.
E' il caso della esibizione della BRUFORD BAND avvenuta negli studi della BBC durante la registrazione dello storico programma musicale televisivo OLD GREY WHISTLE TEST.
Vale la pena sottolineare il fatto che la formazione sul palco non è esattamente quella che poi avrebbe registrato l'eccellente album d'esordio FEELS GOOD TO ME. Quattro quinti dei musicisti coinvolti sono in effetti gli stessi (Bill Bruford, Allan Holdsworth, Dave Stewart e Annette Peacock) mentre il basso è suonato da Neil Murray. Ma non è certo a quest'ultimo che deve attribuirsi la responsabilità della deludente esibizione.



Il gruppo infatti sembra davvero impreparato all'occasione (ed io onestamente non ho fatto ricerche per sapere se partecipare all'OGWT fosse stata una scelta in qualche modo "forzata" o "improvvisa") però sicuramente non è da musicisti come quelli citati rischiare di fare delle figure non all'altezza della loro fama.

Il gruppo ha il compito di chiudere con la propria esibizione la puntata della trasmissione e lo fa eseguendo due brani del primo album: l'omonimo FEELS GOOD TO ME e BACK TO THE BEGINNING.
Nel primo, a parte un (apparentemente, almeno) svogliatissimo Holdsworth seduto su un amplificatore che si limita a ritmare la sua chitarra senza alcuna determinazione e senza addirittura un qualche suono (magari questo è imputabile alla fonia palco ... però l'atteggiamento del chitarrista non lascia intendere un grande entusiasmo),



un grossolano errore dell'altrove eccellente Dave Stewart compromette di fatto l'utilizzo della registrazione per una diffusione televisiva (o almeno la sconsiglierebbe). Soprattutto perchè lo stesso Stewart si manda eloquentemente a quel paese da solo in modo decisamente plateale (che proprio non sarebbe suggerito dalla consuetudine professionistica dell'ambiente) che semmai rende simpatica giustizia alla apprezzabile spontaneità della situazione.



Non va meglio nel secondo brano, con una buona interpretazione vocale (anche se incerta a volte) della Peacock (forse troppo "esuberante" nelle mossette "accattivanti")



che non riesce a nascondere le incertezze continue della band, manifeste durante il lungo solo centrale di Holdsworth. I musicisti si guardano, si cercano continuamente nella necessità di segni d'intesa. Ovvio che ad una visione appassionata quelli citati sono particolari che non diventato determinanti per escludere il documento dalla propria collezione, ed è altrettanto evidente che una brutta performance non inficia minimamente il valore dell'operazione in corso, però resta significativo il fatto che di questa registrazione mal riuscita esistono in giro solamente delle copie non ufficiali perchè censurata probabilmente dallo stesso management degli artisti.
A volte capita anche questo.

A parziale "risarcimento" suggerisco la visione del DVD ufficiale dedicato a Bruford e pubblicato recentemente nella serie ROCK GOES TO COLLEGE (con Jeff Berlin al basso) che almeno dal punto di vista generale non vede condizionata da evidenti errori l'intera performance.

lunedì 19 gennaio 2009

BRIAN DAVISON - Every Which Way (1970)



Alla fine del 1969, dopo le scoglimento dei NICE, BRIAN "Blinky" DAVISON (batterista della formazione con Jackson ed Emerson) ha dato vita ad un nuvo gruppo chiamato EVERY WHICH WAY, pubblicando poi nel 1970 l'unico omonimo album.

In compagnia di Alan Cartwright al basso (che dopo la registrazioene del disco si unirà ai ben più famosi Procolo Harum), Graham Bell (Piano, chitarra e voce), John Hedley (chitarra solista) e Geoff Peach (fiati e cori) Davidson crea un suono molto figlio dell'epoca, ma sufficientemente originale grazie soprattutto alla buona voce di Bell e soprattutto al lavoro di sax e flauto di Peach che inevitabilmente porta il sound del gruppo ad avvicinarsi all'ondata progressive che stava montando in quell'inizio di decade.

Sorprende comunque l'atmosfera sempre abbastanza sommessa dell'intero lavoro, che raramente si lascia attrarre da episodi sonori dirompenti o di grande energia. E' un disco meditato, riflessivo e davvero lontanissimo dalla dimensione esuberante dei trascorsi "carini".
Nonostante l'atmosfera controllata, è apprezzabile il lavoro raffinato di arrangiamenti che permettono a tutti gli strumenti di dare il proprio valido contributo al risultato finale, in questo modo nessuno strumento emerge troppo rispetto agli altri ed il suono risulta oltremodo compatto e coerente.
Una curiosità: incredibile la somiglianza TOTALE del riff di chitarra presente nel brano di apertura con il ben più famoso Shine On You Crazy Diamond di una band inglese di discreto successo internazionale di cui non ricordo il nome .... ;-)

Certo, questo disco degli EVERY WHICH WAY non sarà un "capolavoro prog", ma nemmeno un disco da dimenticare del tutto.

Con l'occasione, sembra anche corretto ricordare proprio la recente scomparsa di Davidson avvenuta lo scorso Aprile 2008.

sabato 17 gennaio 2009

KEN FIELD - Subterranea (1996)



KEN FIELD, sassofonista e tastierista part-time dei BIRDSONGS OF THE MESOZOIC, ha assunto un ruolo di importante perno sonoro all'interno della formazione di Boston a partire dal 1988. Il suono di Field nei BOM è sempre stato caratterizzato - ed in qualche modo anche "condizionato" - dalle strutture compositive del principale (pressochè unico) autore della formazione, il "matematico" musicista Eric Lindgren.
Questo suo primo lavoro solista Field lo ha prodotto allontanandosi dalla frenesia tecnica e dalla freddezza matematica della razionalità schematica delle composizioni registrate con i BOM, ritrovando una dimensione assolutamente personale e ricca di fascino.
Già solamente la volontà di registrare SUBTERRANEA all'interno di alcune stanze poste sotto terra e facenti parte di una serie di strutture architettoniche pseudo-neolitiche (in realtà frutto modernissimo dell'inventiva architettonica del geniale uomo d'affari D.B.Anderson) costruite a Roswell nel New Mexico, induce a confermare la scelta di un percorso creativo di riscoperta (e non di autocelebrazione) personale.
E' lo stesso Field che nelle note di copertina sostiene "le composizioni sono fondamentalmente delle improvvisazioni che prendono via via forma nel loro evolversi, prodotte cioè senza la preventiva consapevolezza del risultato finale".
E questa caratteristica in continuo divenire è facilmente apprezzabile nei lavori di sax solo, come l'ordinata e sospesa "Five saxophones in search of meaning" o la solitaria "The missing soul", o ancora nelle brevi stratificazioni multiple di improvvisazioni, estemporanee esecuzioni che trovano un brillante risultato nel loro dinamico avvicinarsi ("Sanity").
Elemento invece più colorito e sorprendente è la presenza di percussioni (a volte decisamente improbabili come le custodie degli strumenti stessi o delle lattine di succo di frutta) che caratterizzano il suono complessivo con un simpatico alene divertito ("Om on the range" o "Perpetual motion").
SUBTERRANEA ci ricorda come Ken Field non sia affatto un musicista esclusivamente ponderoso e concettuale (come forse la sua presenza nei BOM lascerebbe intuire), ma sappia anche efficacemente sorprendere l'ascoltatore con composizioni allegre e spiritose ... ed è per questa sua attitudine che fa anche stabilmente parte di una colorita band di musicisti "di strada" chiamata REVOLUTIONARY SNAKE ENSEMBLE.

venerdì 16 gennaio 2009

MOGUL THRASH - Mogul Thrash (1971)



Questo è un esempio di disco tanto sottovalutato, quanto sconosciuto.

E del resto è difficile pensare ad una congrega di musicisti apparentemente così lontani tra loro ... James Litherland (chitarra dei primi Colosseum), John Wetton (di lì a poco poi con Family e successivamente con Robert Fripp nei King Crimson) oltre a Roger Ball e Malcolm Duncan (della Average White Band) e la produzione - impeccabile - di un mostro sacro della musica early seventies come Brian Auger.

Come i MOGUL THRASH, anche altre bands di quel british-sound (IF - su tutte) sono state presto dimenticate, travolte dalla piena del concettuoso prog-rock (quindi non solo il "genere" punk ha distrutto la musica e "giustiziato" i musicisti precedenti!).
Ed è un peccato perchè quel curioso guazzabuglio di "ART-rock-blues" (una nuova categoria???) aveva alcune peculiarità degne di nota. Non si può non apprezzare lo sforzo dei musicisti coinvolti in questo progetto nel tentativo di inventare una musica rock bianca con marcate influenza blues, a volte quasi rhythm'n'blues ai confini di un soul più "sonoro" che "d'animo" e provare anche a darne una parvenza "colta", "intelligente". Brani come "Going North, going West" meriterebbero un posto di rilievo in una antologia della musica seventies ... così come "Something sad" e le sue raffinate aperture fiatistiche già al limite di un prog più "leggero" di quello che stava ormai arrivando.
Mi ricordo perfettamente che il suono del basso di John Wetton (sconosciutissimo) già si distingueva per quel timbro violento ed aggressivo che più in avanti tanto avrebbe dato alla causa "sonora" degli straordinari King Crimson mark IV (per credere ascoltare la riproposta della già nota "Elegy" dei Colosseum in Valentyne Suite).

Adesso, a posteriori, mi sembra giusto far notare come l'intelligente produzione di Brian Auger (uno dei tastieristi sicuramente più innovativi e straordinari dell'epoca e - nel mio piccolo - uno dei miei musicisti preferiti) si sia limitata semplicemente a "far suonare" la band, privandola di interferenze particolarmente pesanti o di ego-manie di riconoscimento della propria opera. Invidiabile.

Musica vecchia ... vero?

Beh, meglio!

giovedì 15 gennaio 2009

HAWKWIND - Hawkwind (1970)




Che meraviglia ... erano anni che non riascoltavo il primo album di HAWKWIND!

Lo ricordavo come un bell'esempio di un certo psychedelic new folk, ma dopo anni di suoni tra i più svariati, ritrovarmi catturato dalle atmosfere visionarie di questa eccellente band (mai troppo considerata da queste parti) è veramente una boccata d'aria fresca.

Prodotto nel 1969 dall'ex PRETTY THINGS Dick Taylor (ma pubblicato nel 1970) questo album traccia in modo deciso e creativo una nuova traiettoria nello scenario musicale contemporaneo e rappresenta l'inizio di una straordinaria avventura che porterà la psichedelia ad unirsi sapientemente con il folk malato d'acido e la cosmicità indotta dalle escursioni sperimentali dei primi synth e dei primi rudimentali echo Binson.

01
HURRY ON SUNDOWN
Una canzone quasi hippie style, suadente e dolcissima dall'incedere costante sostenuto.

02
THE REASON IS?
Prima eccellente incursione nei "fluidi" espressivi elettroacustici, tra un incessante vaporio di piatti e drones elettronici sospesi nel nulla.

03
BE YOURSELF
Rock song dove le chitarra di Dave Brock e John Harrison, aiutate dal lancinante sassofono di Nik Turner, costruiscono l'ossessivo riff portante su cui si innesta una cosmicamente distorta voce declamatoria. La successiva sezione improvvisata basata su un pattern di batteria quasi-rubato da A saucerful of secrets dei contemporanei RosaFluidi è impreziosita dalle incursioni degli electronic noises di Dick Mick ... in un momento dove si era solo all'inizio della cosmicità elettronica nel rock

04
PARANOIA part.1
Cupa introduzione al brano vero e proprio. Echi dei primi VdGG (ovviamente) ma soprattutto ostentata sperimentazione di tecnologia in studio.

05
PARANOIA part. 2
Anche qui è impossibile non notare la pesante influenza dei RosaFluidi, ma la voce satura e sempre più dispersa nello spazio fa capire che il cosmic trip è appena iniziato ... e la rotta non è stata del tutto tracciata. Stupende le sovrapposizioni di basso e chitarre su un tappeto di suoni galattici, in una traiettoria davvero stellare. Sullo sfondo la batteria di Terry Hollis pulsa prima con grande veemenza e poi si abbandona al silenzio lasciando ormai in orbita la navicella.

06
SEEING IT AS YOU REALLY ARE
... e questa è la rotta tracciata.
All'inizio tutto fluttua in una assenza di gravità sonora. Il sospiro siderale è sorretto solamente da un primitivo arpeggio di basso. Piano piano la progressione prende piede e lo scenario si palesa nuovamente. Sospiri, chitarre cosmo-slide, glissando-sinth e tutti gli ingredienti dell'abbandono psichedelico. Dopo tre minuti la velocità della navicella è ormai ritornata a pieno regime e non c'è tempo per guardarsi intorno.
Stiamo davvero attraversando il cosmo.
Calmatosi il vento cosmico tutto torna a rallentarsi con il canto di una voce (quasi) umana che accompagna il viaggio sorretta da una batteria rigorosa e ostinata. Naturalmente è solo una parentesi, nel ciclo lisergico dell'espressione creativa si tratta dell'ultima "compressione" prima dello slancio finale, prima che il sax di Brock non riprenda a tracciare nuove evoluzioni compatibili con la ritrovata orbita stabile fino ad uno schianto finale improvviso e definitivo.

07
MIRROR OF ILLUSION
Il brano successivo occhieggia ad una strana ibridazione tra la solare california e la grigia volta celeste sopra l'europa. Sirene a tonalità cangianti, chitarre sature e sporche accompagnano un cantato iniziale che sembra provenire dalle lande della acida costa ovest d'oltreoceano. Il basso pulsa note su note e la batteria - qui ridotta a costante battimento ossessivo - mantiene una tensione costante ed efficace. Echi quasi a-la-CAN sul finale. Il lucido testo del brano si interroga sul possibile inganno della nuova consapevolezza, è un solido esempio di dubbio fondamentale prima di intraprendere un percorso esplorativo nella propria mente:

... The mirror of illusion reflects the smile,
The world from your back door seems so wide,
The house, so tiny it is from inside,
A box that you're still living in, I cannot see for why
You think you've found perception's doors, they open to a lie.

La nuova percezione ormai a portata di mano non sembra essere senza rischi, quindi.

Un disco ingenuo (forse solo se letto ex-post) ma bellissimo, che anticiperà di poco un capolavoro molto più solido e concreto come il successivo IN SEARCH OF SPACE.


TODD RUNDGREN's UTOPIA - Another LIve (1975)

(precedentemente postato nel MySpace de l'Archivista)

Dopo il ritrovamento di COSMIC FURNACE, sarebbe stato facile riportare alla luce in caverna un disco fondamentale per il sottoscritto quale SOMETHING/ANYTHING o A WIZARD A TRUE STAR ... oppure TODD.

Invece, spinto da reale nostalgia ho estratto dalla sua preziosa copertina (europea) uno dei dischi più sottovalutati ed ignorati della discografia di uno dei massimi esponenti del prog-americano negli anni 70 (ed anche eccellente songwriter pop): TODD RUNDGREN.

Ho scelto il secondo capitolo con la band UTOPIA, quel ANOTHER LIVE registrato dal vivo nell'agosto del 1975 e pubblicato un anno dopo lo straordinario evento che fu l'uscita omonima della band UTOPIA.

ANOTHER LIVE vede la formazione degli "utopians" già parzialmente cambiata, in via di riassestamento verso la consolidata band che accompagnerà Todd dalla fine del 1975 fino agli anni 90. Non c'è più il sintetista dai capelli verdi (Mr. Frog Labat) ed al posto suo è arrivato proprio il talentuoso electronic wizard ROGER POWELL, mentre alla batteria il più rigoroso ed ordinato JOHN WILCOX ha preso il posto che era stato dell'imprevedibile (ma eccellente) Kevin Ellmann. sono rimasti per il momento al loro posto RALPH SCHUCKETT (tastiere), MOOGY KLINGMAN (tastiere) e JOHN SIEGLER (basso).

Il suono del gruppo è comunque straordinariamente solido e coerente con la precedente uscita e anche l'apporto compositivo dei nuovi arrivati è assolutamente integrato nella trama sonora della band.

(01) ANOTHER LIFE è un brano d'apertura che avrebbe fatto invidia a qualsiasi band contemporanea, con i suoi riffs potenti e penetranti e le cangianti atmosfere a cavallo tra un prog in evoluzione ed una reminiscenza del suono soul americano.

(02) THE WHEEL è una ballata acustica che si avvale dell'uso della tromba di Powell e della fisarmonica di Klingman e dell'armonica di Shuckett, mentre Wilcox efficacemente sottolina il tutto con dei bongos post-hippies. Tutto assolutamente ... TODD!

(03) THE SEVEN RAYS è l'episodio sicuramente più interessante del disco. Una tipica composizione sempre sul confine della troppa cerebralità per una band americana di "intrattenimento", ma perfettamente inserita in quell'epoca di coraggiose puntate nella complessità musicale con il "feel" della banda rock. Il brano comunque anticipa perfettamente quello che sarà da lì a poco il suono della band UTOPIA e definisce in maniera assoluta il concetto di prog-americano. Peccato che lo stesso Todd lo abbia ben presto abbandonato nelle sue scalette "concettuali" successive.

(04) INTRO/MISTER TRISCUITS/SOMETHING'S COMING esplosivo contributo elettronico al suono utopiano di Roger POwell che "duella" con la chitarra allucinata di Rundgren prima di lasciare il posto all'ottimo songwriting rock del chitarrista in questa sorta di nuovo medley electro-glam. (una breve digressione necessaria per segnalarvi l'esistenza di un bootleg intitolato NIMBUS TITHERWARD registrato a Londra nel 1975 dove la versione di questo brano raggiunge dei livelli davvero STELLARI di gran lunga superiori a quelli - già meravigliosi - presenti in questa pubblicazione.)

(05) HEAVY METAL KIDS classico del precedente repertorio solo di Todd qui adattato alla dimensione più ricca del sestetto. Il beat è decisamente più veloce e l'arrangiamento soprattutto vocale sembra più riportare il tutto ad una canzone glam-soul-rock, quale in origine proprio non era! Purtroppo il risultato non è perfettamente riuscito ed è l'episodio minore dell'intero disco, nonostante il brano sia sempre comunque una solida rock-song.

(06) DO YA è la cover di un brano dei MOVE in "risposta" ad una loro cover di un brano dei NAZZ (prima band di Todd) presente nel repertorio live della band inglese. Indubbiamente adatta alle corte del Todd più "beat" diventa una efficacissima versione post-psichedelica.

(07) JUST ONE VICTORY un vero e proprio inno post-freak denso di messaggi pacificti e di tolleranza nel testo e di riferimenti al soul della costa ovest americana nella musica. Uno dei brani di Todd che personalmente amo di più (forse perchè chiudeva un altrattanto amato LP intitolato AWATS).

ROGER POWELL - Cosmic Furnace (1973)


(precedentemente postato nel MySpace de l'Archivista)

Roger Powell
ha avuto un momento di considerevole notorietà quando è entrato a far parte dell'orchestra prog-psichedelica di quello straordinario artista che fu (ed è) TODD RUNDGREN nella seconda metà degli anni 70. Entrato per sostituire le rumoristiche incursioni sonore di Mr. Frog Labat ben presto ha accorpato su di se l'intera responsabilità della sezione tastiere, in precedenza suddiviso in tre diffrenti persone, Moogy Klingman, Ralph Shuckett e Frog Labat, appunto.

Eppure nel 1973, sponsorizzato dalla ARP Instruments Inc., il mago del suono prog elettronico ha prodotto uno dei dischi FONDAMENTALI della scena elettronica seventies.

Una breve digressione a proposito della leggentaria ARP. Fondata da Alan Robert Pearlman nel 1969, la ARP riuscì a perseguire ottimi risultati nel campo della produzione di strumenti musicali elettronici in una ricerca parallela e (unica) concorrente alla strada intrapresa dalla Moog Inc. Tra i suoi leggendari modelli vanno ricordati con nostalgia l'ARP ODYSSEY, l'ARP 2600 e, sebbene con qualche rammarico "funzionale" l'ARP Quadra.

Nella Fornace Cosmica dell'alchimista del suono Roger Powell ogni singolo modello di sintetizzatore ARP è stato sapientemente "incaricato" di sostituire gamme di suono ben precise.

Entriamo nella COSMIC FURNACE ....

(01)
ICTUS - The Primordial Pulse
Un beat costante, ossessivo generato da un white noise senza decay e sustain mantiene teso e diretto il contesto sonoro in cui pianoforte e una serie di modulazioni timbriche di vari synth ARP forniscono temi che cambiano continuamente intersecandosi tra loro seguendo anche delle ondivaghe variazioni di tempo.
Un brano di forte impatto e personalità che spinge in avanti il confine della musica elettronica applicata ad un certo linguaggio più progressivo fino a quel momento identificabile con le straordinarie elaborazioni di personaggi quali Beaver & Krause o la TONTO Expanding Head Band di Malcolm Cecil e Robert Margouleff. Una apertura di LP destinata a rimanere tra le più impressionanti ed efficaci mai prodotte.

(2)
LUMIA - Dance Of The Nebulae
Una cosmische intro fa subito intuire ad un logico sviluppo modello tedesco (Phaedra dei Tangerine Dream è proprio del 1973). Lunghe sequenze elettroniche con variazioni timbriche random a tappeto di semplici modulazioni tematiche.

(3)
FOURNEAU COSMIQUE - The Alchemical Furnace Of Cleopatra
Il sorprendente intro di pianoforte sembra invece portare l'atmosfera verso un'altra direzione, ma è solo una riprova della versatilità della ricerca del Powell datato 1973. Il piano acustico (ed il fender Rhodes) sono gli unici suoni NON GENERATI dalla vasta gamma dei sintetizzatori ARP messi a disposizione dalla omonima azienda americana.
Infatti riprendono le percussioni elettroniche e i suoni solisti tipici della generazione analogica. Interessante notare la struttura compositiva lasciata al supporto di coraggiose sequenze di accordi in progressioni molto originali. La conclusione pianistica riporta l'atmosfera a quel senso di "sospeso" ben caratterizzate dai "noise drops" in background.

(4)
HERMETIC ENIGMA - The Fixed Volatile
(The Answer Is But Another Bird)
Come per la prima composizione "Ictus", qui l'impatto è volutamente più ritmico (in realtà questo brano apriva maestosamente la seconda facciata dell'LP). Il tema viene esposto dal piano, dal clavinet e da più synths fino ad una "zona" sospesa da un pulsare di sequenza elettronica su cui si inserisce una sezione a-solo mentre in sottofondo tutti gli strumenti continuano autonomamente ad "inventarsi" una figura ritmica ed armonica in costante evoluzione. Forse uno dei momenti più interessanti del disco, dove l'ascolto dei particolari dello sfondo sono molto più importanti delle evoluzioni solistiche di Powell. Splendido soprattutto il Rhodes che permette di apprezzare la qualità dell'esecuzione pianistica di Powell.

(5)
QUEENE ENFINESKA - Serenity Of The Lion In Summer
Ancora guidata da un pianoforte acustico in primo piano questa ordinata breve composizione paga tributo al prog contemporaneo, ma con una grande dignità ed originalità

(6)
TENSEGRITY - A Dymaxion Triptych
E' il brano che conclude il disco ed è anche il più complesso in termini di composizione. Ben inteso, la complessità qui non è data dalla difficoltà dei temi proposti, ma da una obliqua verve quasi "bluesy" che davvero risulta sorprendentemente bizzarra. Le progressioni armoniche dei sintetizzatori usati sono costantemente in evoluzione mentre la glaciale ritmica dei primi sequencer non riscalda l'atmosfera rendendola molto asettica e snob.
Molto interessante la sezione più rarefatta che caratterizza l'inizio la seconda metà del brano, che offre una brillante soluzione di continuità all'atmosfera precedente. Molto bello nel frattempo, l'uso del pianoforte acustico, che rende umana un'atmosfera diversamente aliena.

Questo era nel 1973.



Dopo anni di silenzio Roger Powell ha organizzato un nuovo progetto musicale chiamato FOSSIL POETS. Pur evidentemente molto meno rivoluzionario dei suoi primi esperimenti, il nuovo Powell merita comunque un ascolto attento, data la sua indubbia capacità compositiva e strumentale.

LEMON KITTENS - We buy a hammer for daddy (1980)



No-Rock!
è questa l'unica possibile definizione per questa gemma del "non-piacere d'ascolto" pubblicata nel 1980 nello scenario musicale della nuova musica di inizio decennio. La new Wave era in odore di assestamento nel passaggio tra l'ondata (devastante) del punk e la riconversione commerciale del mercato adolescente avvenuta solo qualche anno dopo grazie alla sapiente capacità imbonitirce delle nuove mode comportamentali (New Romantics, Dark wave etc etc). In quell'interregno, - in quelle pieghe oscure - un mercato totalmente indipendente iniziava a proporre nel nome dell'adagio "anything goes" tanti, troppi incubi non controllati da un music biz incapace di dare voce a tutta la "diversità" artistica disponibile.

In quel particolare momento - in cui si aprono anche i sancta-sanctorum degli stabilimenti di fabbricazione dell'inarrivabile oggetto in pvc - nella moltitudine di volonterosi nuovi artisti, protagonisti della stagione Thatcheriana in Albione, ecco spuntare fuori questo ensemble schizoide ed inquietante dal nome (neanche tanto) vagamente osceno di LEMON KITTENS.

Senza particolari doti tecniche strumentali un primo quartetto di musicisti inizia già nel 1979 a proporre una musica davvero originale ed indefinibile. Ma è con la riduzione a duo che LEMON KITTENS diventa un vero oggetto meritevole di studio.

Nel 1980 il multi-non-talentuoso KARL BLAKE e la spiritata DANIELLE DAX danno alle stampe per una oscura etichetta autogestita (la United Diaries, che per obiettivo commerciale aveva lo scopo di proporre dischi impossibili ad essere considerati da qualsiasi Art Director sulla faccia della terra) l'album WE BUY A HAMMER FOR DADDY, creando così un vero capolavoro e fotografando al meglio l'essenza devastante dell'attudine artistica contemporanea.

E' vero che altri progetti musicali camminano sulla stessa strada (tra essi gli ottimi LUDUS della vocalist e performer Linder, per i quali varrà sicuramente la pena organizzare un post a parte in questo luogo!), ma la preziosa libertà d'espressione senza vincoli proposta dalla coppia in questo disco è un prezioso distillato di quei giorni oscuri.

Sassofoni straziati, chitarre devastate ed ogni sorta di suono "generabile" vengono frullati insieme in "canzoni" certamente destrutturate e sconnesse (se paragonate allo standard fino allora abituale), ma allo stesso tempo diventano esse stesse manifesto della testimonianza in vita di una voglia di comunicare coraggiosa e senza l'uso della inevitabile disonestà dell'identità "commerciabile".

Un disco DEFINITIVO.

venerdì 9 gennaio 2009

FAR EAST FAMILY BAND - Parallel world (1976)




Band giapponese della metà degli anni settanta che nasconde tra i nomi originali dei componenti Masanori Takahashi ovvero il ben più noto KITARO. Per questo loro terzo lavoro la produzione è affidata addirittura a "sua cosmicità" KLAUS SCHULZE in persona.
Il risultato che ne viene fuori è un bizzarro mix di rock e di trippy-prog space-rock in grado di affascinare e catturare con le sue ipnotiche atmosfere smaganti proprie di una psichedelia sicuramente derivativa con grandi sezioni ritmiche ossessive a ricordare i giorni dei primi Floyd ed aperture progressive a piene mani e cantati piuttosto evanescenti nell' idioma del sol levante che - onestamente però - non aggiunge un particolare fascino esotico (non esiste qui l'effetto DAMO SUZUKI nei CAN ... per intenderci!).
Benchè non imperdibile, questo cosmic-prog dei Far East Family Band può però rappresentare una buona alternativa a molti altri ascolti pseudo artistici provenienti dall'europa, mettendo comunque in preventivo - necessariamente - una buona dose di ingenuità nelle scelte musicali qui proposte.

CABALLERO REYNALDO - The Grand Kazoo (2008)



... e alla fine è venuto il momento del GRAND KAZOO!

Dopo 9 volumi che hanno contenuto le più svariate declinazioni organizzate delle note musicali del maestro Zappa, ecco che il sempre sorprendente CABALLERO REYNALDO sforna un disco completamente a proprio nome che lo vede protagonista in una nuova veste di quasi-country man.

A Luis - che personalmente apprezzo per la capacità di saper cercare nella musica degli altri le emozioni che danno nutrimento alla propria creatività - mi lega una sincera stima a distanza e tre fortissime passioni musicali comuni: ZAPPA, CARDIACS e SPLIT ENZ.
Troppo per essere obiettivo nei giudizi? Può darsi, ma la qualità dei lavori fin qui pubblicati (sia come artista solista che come produttore ed artefice principale dell'etichetta indipendente HALL OF FAME) si fanno giudicare da soli e l'unico rammarico che mi resta è che la loro distribuzione troppo poco capillare (affidata solamente al web ... come ogni indipendente contemporaneo, del resto) relega alcuni dischi davvero notevoli nella nicchia delle produzioni europee che non hanno abbastanza voce per essere sentite adeguatamente.
Ciò detto, passo a qualche nota dedicata al contenuto di THE GRAND KAZOO, volume 10 della ormai leggendaria collana UNMATCHED.

01
LUMPY GRAVY THEME (Duodenum)
Tromboni, scacciapensieri e voci fanno da padroni in questa versione country che introduce con grande effetto il tema dello Zappa-Cowboy solitario.

02
PO-JAMA PEOPLE
Primo vero brano della selezione. Cantato in unisono con una voce femminile, il pezzo approfitta di una solidissima base musicale con un brillante pianoforte ed un dobro arpeggiato (almeno sembra) in buona evidenza. Il riff di talk-box finale aggiunge ancora più "funk" alla dimensione che in questo modo comincia già ad ibridarsi. Siamo in una dimensione di country metropolitano, probabilmente stiamo parlando di cowboy in un parco cittadino ... tra le case.

03
THE TORTURE NEVER STOPS
Esilarante versione del disturbato racconto originale degli strumenti di tortura nelle segrete di qualche improbabile umido castello. Qui tutto diventa una serena ballata accompagnata da un banjo ed una armonica. Il testo, proposto dalla voce "ingenua" di MARIETA TAMARIT, diventa parte straniante dell'atmosfera, rendendo efficace il racconto nel suo apparente distacco emotivo.

04
EAT THAT QUESTION
Qui l'arrangiamento è davvero esaltante nel far diventare "una contry song" uno dei temi che uno zappiano vero non può non amare alla follia. Qui fa capolino un elettro-beat inatteso (ma ricordiamoci che stiamo parlando di un cowboy metropolitano) assolutamente efficace nel sostenere le evoluzioni del piano e gli arrangiamenti del tema principale con i tromboni e le voci corali. Fruste e nitriti di cavalli portano il finale verso una apoteosi totale. Emozionante!

05
YOUR MOUTH
Probabilmente il brano che non poteva mancare, data la versione originale di Waka Jawaka ... già country-oriented da solo. Ed in effetti non è così difficile per il Caballero crearne intorno una bluesy song efficace dove fa la sua apparizione anche una bizzarra sezione di "human vocal drumming".

06
DIRTY LOVE
"Rid'em cowboy" è l'inizio di questa stravolta "p-elvisiana" versione dell'invito osceno originale. Bellissimo il grottesco effetto "early-reflection" applicato alla voce che rende l'idea della voce early rock'n'roll old 50's. Finalmente appare anche un altro degli strumenti prìncipi del country, il violino che vaga durante gli spazi senza cantato.

07
I'M SO CUTE
Difficile immaginare l'inclusione di questo brano. Ma la genialità del caballero lo fa capitare come fosse un canto di guerra di una altrettanto metropolitana tribù di pellerossa. Ha Ha!!! Come divertirsi con una musica decontestualizzata! Bisognerebbe imparare da questa capacità di sorridere e rilanciare allegria con la musica d Frank.

08
BIG LEG EMMA
Qui siamo più agli anni post-bellici come atmosfera e sembra una qualche orchestrina di intrattenimento in un circolo di reduci ... vocine femminili armonizzate in pieno stile anni 40 e trombe con sordina in grande spolvero. L'andamento è sempre comunque vagamente country.

09
CATHOLIC GIRLS
Troppo buffa questa versione con vocine angeliche e un simil-fracchia cantante ad intonare le strofe principali prima di lasciare lo spazio ad un singer confidenziale che però si vede a sua volta - e nonostante l'aplombe - demolire la struttura musicale sotto i piedi. Tromboni in grande evidenza nelle armonizzazioni principali ed un piano a sorreggere tutto.

10
ELECTRIC AUNT JEMIMA
Ovvia giga intorno al fuoco con violino, chitarra e banjo. Entusiasmo e spari all'aria per il divertimento del vaccaro metropolitano. Evviva la cottura di fagioli nel parco locale!!! Gnam Gnam.

11
I HAVE BEEN IN YOU
Mandolino, autoharp e fiddle per introdurre una romantica ballata in valzer al cinguettar dei fringuelli. Cantata a due voci dal Caballero e da Marieta.

12
IT JUST MIGHT BE A ONE-SHOT DEAL
Oscura diversione di un altro classico quasi-country all'originale. Ed infatti l'elemento creativo di questa nuova versione è che le armonie vengono sapientemente cambiate in una continua alternanza di atmosfere che risultano coerente i ben coese nonostante le differenti prospettive.
Un bell'esempio di rielaborazione del tutto originale.

13
LOVE OF MY LIFE
I fiati in grande evidenza per questa versione "p-elvisiana". Originale perchè improbabile, e non certo scontata nonostante la semplicità innata della canzone di partenza.

14
MR. GREEN GENES
Nell'essere metropolitano, il cowboy del Caballero ha evidentemente incrociato un pioniere australiano che gli ha prestato il suo didgeridoo per introdurre questo classico della produzione Mothers. Chitarra acustica e rumori di ancestrali danze aborigene smagano l'atmosfera segnata da una voce profonda impegnata più a recitare il testo che non a cantarlo.

15
BOBBY BROWN
Canzoncina con uno scanzonato fischietto melodico a raccontare l'allegra melodia prima di affidare ad una chitarrina ossessivamente vagante tra il canale destro e sinistro dello stereo (sconsigliata per chi soffre di labirintite) un assolo demente. Riprende in chiusura il fischiettino che ci accompagna fino alla conclusione.

16
HARDER THAT YOUR HUSBAND
Un blues up-tempo che proviene da uno dei tanti saloon degli states, impreziosito dai continui ceselli del quasi rag-boogie-piano. Ascoltandolo viene in mente l'iconografia tipica di un certo western cinematografico, sebbene un inatteso colpo di pistola conclusivo pone fine alla carriera del brillante pianista del saloon. Hotcha!

17
WOWIE ZOWIE
Superato lo choc della pronuncia del titolo (bizzarra davvero!) si può meglio apprezzare questa quasi tijuana ballad. Canzonicina piacevole e ben realizzata con i suoni retrò delle chitarre elettriche e le whammy bar.

18
STICK IT OUT
Trainwreck perfettamente riuscito atto prima ad introdurre i membri della band protagonista di questa operazione (bizzaro pensare di sentire una presentazione così esaustiva interrotta da un altro sparo di colt di un evidentemente spazientito cowboy) e che poi si concretizza in una canzoncina con fiddle e tutto il necessaire per danzare intorno ai tavoli.

19
WATERMELON IN EASTER HAY
Ho ho ... la grande sfida con IL BRANO quindi ... una specie di sfida musicale all'OK CORRAL. Ed il fischietto di Luis - aiutato dall'inevitabile scacciapensieri del cowboy solitario - sembra proprio riportare il tutto agli spaghetti western di Sergio. Solo che qui, zappianamente mi sento di poter dire che il titolo potrebbe essere "SU LA TESTA!"

20
JOE'S GARAGE
I cowboy metropolitani raccolcono una radio abbandonata nel parco cittadino vicino al loro accampamento e si sintonizzano su una (non cinque!!!) stazione radio che - prendendo spunto dalla canzoncina del garage più famoso zappiano - insegna a suonare una tipica composizione in stile country. Poi a mo' di "cowboy tubular bells" vengono presentati i singoli solo e gli strumenti all'opera. Simpatico ed imprevisto il travolgente momento di assoli di pianoforte a quattro mani. Inarrivabile la citazione finale ... l'AUGH imperdibile dell'Indiano del gruppo. GENIALE.

Già altrove su questo oscuro antro della rete avevo sostenuto che CHI DI DOVERE dovrebbe SOSTENERE E NON BOICOTTARE chi offre a questa musica l'opportunità di vivere e di cambiare efficacemente pelle costantemente grazie ad un lavoro di elaborazione proprio di chi la AMA. Peccato che invece sembra inevitabile che una supposta "dignità artistica" non debba essere messa MAI in discussione ... nemmeno la dignità artistica di chi per anni ha fatto dell'ironia la prima arma per elaborare in suoi propri tessuti musicali le citazioni incrociate più disparata ad usum della propria arte. Peccato.

Intanto, per iniziare ... magari potrebbe essere una buona - forse ottima - idea cominciare ad acquistare questo volume (e perchè no iniziare ad acquistare anche gli altri!!!) per supportare la creatività applicata alla musica di Frank, maestro di intelligenza e sberleffo culturale.

Bravo Luis!
Hola ... Rid'em Caballero(s)!

giovedì 8 gennaio 2009

DAVID FANSHAWE - Flambards (1978)




"Flambards è una fattoria dell'Essex dove l'orfana Christina Parsons viene mandata a vivere sotto tutela del perfido zio Russell ... ma la sua sarà una vita vissuta TOTALMENTE ED INTENSAMENTE"

FLAMBARDS è una emozionante storia del primo novecento (a cavallo della prima guerra mondiale, con i suoi laceranti drammi e le commoventi gioie) raccontata dalle pagine del romanzo di Kathleen Wendy Herald Peyton e pubblicata nel 1967. Nel 1978 la Yorkshire Television acquisisce l'incarico di realizzarne una serie televisiva per conto della ITV (Independent Television). Vengono prodotti 13 episodi che vedono come protagonisti Christine MacKenna e Alan Parnaby e vengono trasmessi nel 1979.

La musica di questo eccellente british serial viene affidata al compositore ed etnomusicologo DAVID FANSHAWE che, con grandissima esperienza e competenza, ne tira fuori un affresco musicale di rara bellezza per gusto e perfettamente coerente con l'ovattata e crepuscolare atmosfera della regia televisiva.

Io personalmente sono un grande appassionato dei telefilm made in UK degli anni settanta e FLAMBARDS è sempre stato uno dei miei preferiti (assiema all'inarrivabile saga di POLDARK).

Dal 2001 David Fanshawe ha riproposto in un CD a tiratura limitata il contenuto musicale dell'originale disco pubblicato dalla Philips nel 1979, ma mai ristampato fino a quel momento.

La colonna sonora de FLAMBARDS è reperibile presso il sito ufficiale del compositore qui.

ARIEL KALMA - Moissons (1975)




Francese di nascita, australiano di adozione, ma cosmico per prassi, ARIEL KALMA è un moltistrumentista che fin da giovane si è appassionato all'interazione musicale con gli ambienti e con le discipline e la meditazione orientale.

Dopo un periodo di grandi viaggi in tutto il mondo, dove ha imparato ad ascoltare ed apprezzare una quantità enorme di stili musicali e/o semplicemente "suoni d'ambiente", ha iniziato il suo percorso personale di ricerca con alcune interessanti pubblicazioni di grande suggestione che offrono un'efficace dimostrazione della qualità del lavoro di ricerca nella metà degli anni settanta.

Echi Ryleyani - ovviamente - ma anche una originale sensibilità nell'uso dei loops e delle brevi frasi musicali che si incontrano e si intrecciano con grande misura e senso del gusto sonoro.


mercoledì 7 gennaio 2009

SADDHU BRAND - Whole Earth Rhythm (1970)



Questo è proprio il naturale risultato di quattro musicisti hippies americani che, al ritorno nella natia S.Francisco da una residenza in India di due anni alla fine degli anni '60, propongono (ovviamente in musica) il risultato della loro esperienza.
Un album di altri tempi, intriso di illusioni e di tentativi di "condivisione" adesso sconosciuti all'esasperato individualismo.
Un disco indipendente stampato autonomamente in poche copie, come una semina casuale di un auspicato nuovo pensiero globale, in un occidente (oggi come allora) sempre più lontano dallo "spirito" del comune sentire.
Fa sorridere, ma anche riflettere.
E, quello che più conta, ora come ora ... si fa ascoltare.

venerdì 2 gennaio 2009

MOTHER GONG - The owl and the tree (1989)



Disco di grande intensità nonostante faccia parte di uno dei numerosi "spin-off" del ben più ampio orizzonte GONG.

Benchè MOTHER GONG sia di fatto il sodalizio artistico e personale di Gilli Smyth e l'inglese (emigrato in australia) Harry williamson, viene qui messa molto in evidenza la presenza dell'ex-compagno della Smyth ovvero quel Daevid Allen da considerarsi indubbio ispiratore primo dell'universo che ingloba questa ennesima eccellente orbita creativa.

La musica qui contenuta è a commento della favola raccontata dall'esoterica voce della Smyth, ma ha un sapore evocativo molto piacevole, e l'atmosfera generale ha tutto l'aroma del progressive di un tempo lontano (echi di Van Der Graaf, Incredible String Band ed ovviamente di Gong) per un ideale intreccio con una più conteporanea new age (a volte quasi a-la Windham Hill) che non risulta affatto fastidiosa, anzi.
Le bizzarre "glissandoz guitar" offrono tappeti sonori per le evoluzioni newjazzistiche del sassofono che spesso inacidisce il suo suono ricordando senza nessun timore la rabbia di un David Jackson (sia con i VDGG che con i Long Hello).
Quando poi compare la tipica ballata a-la-Allen (The Owly song) l'atmosfera è straordinariamente luminosa e serena, come ai tempi più scintillanti della collaborazione con gli Euterpe.
Ma c'è tempo anche per una lunga suite (I am my own lover) che contiene molti elementi della moderna tradizione musicale a cui ci ha abituato la generazione di musicisti inglesi della seconda metà del secolo scorso).

Protagonisti musicali sono
(e vi prego di notare i credits!)

Gilli Smyth
voce narrante, sospiri ed ... immobilità
Harry Williamson
tutto l'immaginabile oltre alle tastiere, voce e varia follia
Daevid Allen
voce, glissando guitar e chitarra acustica
Rob Calvert
respiri nei microfoni, nei sassofoni e nelle orecchie
Rob George
percussioni ... pensando al "tempo" con ... "spazio"
Fretless Fred (Conrad Henderson)
basso e nessuna preoccupazione
Tim Ayers
basso
Wandana Arrowheart
Abbracci rigeneratori e l'armonium della civetta
Georgia
illuminante canzone di libertà e canto dell'anima

Una scoperta per chi non ha mai seguito la galassia del pianeta Allen nelle sue derive, ma una ineludibile conferma per chi ne è stato affascinato fin dall'inizio.