giovedì 15 ottobre 2009

JOHN MARTYN - One world (1977)



La versione italiana del vinile originale è già di per sè una sorpresa per gli amanti di John Martyn, ed è anche fonte di orgoglio collezionistico a tutt'oggi per i fortunati possessori della tiratura italiana ... dato che parte del contenuto del vinile made in Italy NON SEMBRA ESSERE STATO ANCORA PUBBLICATO (di-versioni cantate e missaggi differenti) nemmeno dopo due o tre rimasterizzazioni dello stesso album ... è pur vero che la vita artistica del cantautose scozzese doveva davvero versare in condizioni di confusione incredibile all'epoca.

Comunque sia mi risulta difficile trattenere le emozioni nell'ascoltare questo intensissimo disco che - a mio avviso - raccoglie alcune delle migliori pagine del pur sempre complesso repertorio di Martyn.

Gli arrangiamenti raffinatissimi permettono un'interpretazione vocale di grandissima classe, perfettamente nelle possibilità da uno straordinario manipolatore emotivo delle parole e dei suoni della voce quale John Martyn è sempre stato.
Dalla dolcezza di "Certain surprise" al quasi-grugnito di "Big Muff", dall'aggressività di "Dealer" all'eterea impalpabile voce di "Small hours" questo disco è una continua successione di vere emozioni.

Sicuramente tra i miei preferiti "One world" racconta un John Martyn che (forse) avrebbe potuto esistere, ma che in realtà non si è mai concretizzato ... infinita dolcezza annegata in un mare di alcool e pessime abitudini.

Martyn ha lasciato questa dimensione terrena nel gennaio di quest'anno ... e di lui è rimasta l'arte così fragile rispetto al suo corpulento aspetto scombinato ed aggressivo.

E la sua musica è un bene prezioso che merita ancora tanta attenzione, perchè in cambio offre sempre mille emozioni.


LEON THOMAS - The Leon Thomas album (1970)



Eccellente (quasi) debutto discografico per una delle voci nere più clamorose della seconda metà del '900.

Accompagnato dalle prezione orchestrazioni di Oliver "stolen moments" Nelson e da una interessante congrega di musicisti decisamente interessanti (tra i quali figura un giovane Billy Cobham alla batteria) Thomas concentra la sua abilità nell'interpretazione vocale dei brani proposti con quella sua formula "spiritual jazz" che ne ha contraddistinto l'intera carriera.

In questo disco c'è anche la possibilità di apprezzarne le doti come flautista e si nota come il suo modo di suonare quello strumento non sia poi così dissimile dalla maniera in cui usa i vibrati e la sua inconfondibile tecnica dello yodle quasi in diplofonia.

Tra i brani presenti in questa raccolta meritano una particolare segnalazione "Um um um" e la sua la travolgente tribalità oltre che la straordinaria e lunga "Pharoah's dance (aka The Journey)".

LEON THOMAS - Gold sunrise on Magic Mountain (1971)



Ancora LEON THOMAS a Montreux, questa volta però è il 18 giugno 1971 e la band non è frutto di una intenzione sperimentale, quanto piuttosto una solida band di "black-bluesy rhythm'n'jazz" dove la sua voce può effettivamente risaltare nel giusto modo.

Quando poi l'ensemble strumentale dà fuoco alle polveri allora l'atmosfera davvero diventa elettrizzante ed entusiasmante per compattezza, groove e per il calore che l'intero impianto musicale trasmette (come nel caso della parossistica versione di "Cousin Mary" di John Coltrane con una serie di assoli davvero sul filo dell'umana possibilità e fino all'inarrivabile contagioso entusiasmo della conclusiva tribale "Na na / Umbo Weti").

La band:
Danny Lee Jr (batteria), Victor Gaskin (contrabbasso), Cornell Dupree (chitarra), Na-Na (berimbau), Oliver "stolen moments" Nelson (alto sax), Sonny Morgan (percussioni) e Neal Creque (piano)

SHANKAR, GARBAREK, HUSSAIN & GURTU - Song For Everyone (1984)



Sarà, ma ascoltare il suono di batteria elettronica in un disco come questo, mi fa un po' sospettare ... voglio dire ... con simili talenti presenti era proprio indispensabile utilizzare le attrezzature elettroniche (in maniera poi così "primitiva" dato che si tratta di patterns singoli che chiunque avrebbe potuto programmare agevolmente) per dare sostegno alle evoluzioni solistiche del violino, del sax e delle percussioni ?

Indubbiamente trattandosi del 1984 posso capire l'interesse e la curiosità per la drum machine (probabilmente una Roland 909 dato il suono riconoscibile e valutabile tra i peggiori dell'epoca) e magari anche il desiderio di "attualizzare" il contesto sonoro, però a distanza di anni è solo una benevolente considerazione cronologica a far digerire una scelta che - forse - non fu proprio "da ECM".

A prescindere da questo particolare, comunque, i virtuosi presenti sanno certamente il fatto loro e quindi il disco si ascolta volentieri e - benchè di maniera - permette una piacevole incursione in un jazz elettrico che ha mutuato "termini e modi" da molte altre realtà sonore creando un lessico unico ed originale (qualcuno lo ha chiamato "fusion-jazz").

Il difetto, semmai, è che ben presto quello stesso linguaggio si è consolidato e ripiegato su se stesso senza intraprendere con forza un ulteriore nuovo percorso di rinnovamento concettuale.

NUCLEUS & LEON THOMAS - Live in Montreaux (1970)



Documento di grande curiosità questa performance datata 20 giugno 1970 del "black yodler" Thomas e la appena nata band di brit-jazz capitanata dall'eccellente e compianto IAN "Redhead" CARR.

Frutto dell'estemporanea collaborazione preparata appositamente per il più famoso jazz festival elvetico, questo improbabile connubio si spinge in territori concessi probabilmente proprio solo in quella fase sperimentale di intreccio tra la musica jazz ed altre possibili derive ritenute - fino a quel momento - aliene.

Ad aprire le danze l'intramontabile eterno concept di "The creator has a master plan" (Pharoah Sanders) dove le qualità canore di Leon Thomas danno pieno sfoggio delle loro possibilità (Thomas verrà poi successivamente proiettato nel mondo variopinto e cangiante del rock quando nel 1973 collaborerà con Carlos Santana, ma sarà una parentesi relativamente breve).

A seguire il blues stravolto di "Damn Nam (i'm not going to Viet Nam)" dove l'intensità dell'interpretazione della band è oltremodo notevole considerati i protagonisti presenti sul palco ... KARL JENKINS, JON MARSHALL, l'immancabile BRIAN SMITH e JEFF CLYNE (che personalmente faccio fatica ad immaginare in un contesto blues). A questi va aggiunto l'estroso CHRIS SPEDDING alla chitarra che in effetti è l'unico che si avventura in efficaci improvvisazioni di bottleneck-blues guitar.
"One" è un vero e proprio showcase per la tecnica solistica vocale di Thomas ... e se qualcuno non dovesse conoscere il suo bizzarro modo di cantare la sorpresa è senza dubbio garantita. A seguire i soli di una band - a mio avviso - in piena rotta di collisione con il jazz tradizionale (nonostante le strutture di base sembrino appoggiarsi sulle classiche modalità della musica afro-americana). Brian Smith e Ian Carr la fanno da padroni negli assoli mentre un rigoroso Jenkis contrappunta qua e là il tutto al Fender Rhodes ed un "nevrotico" Spedding mette in atto curiose incursioni a clusters ritmico-atonali con la sua chitarra.

Un altro inaspettato blues ("Chains of love") e la conclusiva "Journey" permettono una ulteriore riflessione sul delicato equilibrio che questo progetto (benchè estemporaneo) stava cercando di proporre. Anche in questo caso Spedding è semplicemente inafferrabile nel suo sempre imprevedibile bottle-neck style (a volte sembra più il chitarrista di ... Capt. Beefheart che non di una brit-jazz-band).

Data la straripante notorietà (nell'ambito jazz tradizionale) di Thomas è fin troppo evidente notare il fatto che NUCLEUS è nient'altro che la band di supporto al cantante ben lontana dalle sue traiettorie innovative nell'ambito dell'emergente rock-jazz (la band infatti pubblicherà il suo primo album ELASTIC ROCK proprio nel 1970 e gran parte dell'interesse inziale ottenuto dagli addetti ai lavoro sarà determinato proprio dalla serata al Montreux Jazz Festival).

ACT OF GOD - Kringloop (1983)



Tra le oscure pagine dell'underground europeo degli (altrove luminosi) anni ottanta trova il suo spazio anche questo prodotto ultraindipendente.

Sono qui presenti in egual misura: atmosfere tribali e cantati vicini alle sperimentazioni dei CAN all'Inner Space studio, interessanti noise-loops che "arricchiscono" il sound generale (che a volte ricordano vagamente le vertigini di gruppi come i METABOLIST o i PERE UBU più astratti) e andamenti Brit New Wave più tradizionali (che ricordano A CERTAIN RATIO).

Una musica dura, a volte insopportabile ... figlia davvero di quel tempo inquieto, ma non per questo da evitare, anzi!.