giovedì 28 gennaio 2010

SOFT MACHINE - Spaced (1969)



Alla fine degli anni '60 essere parte emergente di una cultura musicale proiettata verso nuove frontiere espressive prevedeva anche degli "obblighi".

SPACED è di fatto un'operazione quasi obbligata - appunto - per i Soft Machine visto il ruolo "progressivo" che la loro musica andava guadagnando nell'ambiente artistico contemporaneo. Con ogni probabilità quanto registrato nelle fatiscenti strutture abbandonate sulle rive del Tamigi in quei giorni - e adesso miracolosamente resuscitato grazie alle moderne tecnologie - non sarebbe stato nemmeno lontanamente messo in produzione dal gruppo ormai impegnato nell'evolvere sempre di più il proprio sistema compositivo mescolando acrobaticamente rock e jazz conditi di minimalismo e suggestioni "aliene". Per cui questa volta bisogna "ringraziare" il sistema per aver forzato loro la mano, per aver dato ai tre ragazzotti inglesi un "compitino" sonoro da svolgere, ovvero produrre una determinata quantità di musica sperimentale per accompagnare SPACED, spettacolo multimediale dell'eccentrico artista londinese Peter Dockley in cartellone al Roundhouse della capitale britannica.

Quello che oggi abbiamo la possibilità di ascoltare è una versione abbondantemente "riveduta e corretta" (soprattutto nelle durate e nella scaletta) di quanto registrato con mezzi di fortuna da Bob Woolford, ma rappresenta uno degli episodi creativi più interessanti in assoluto della produzione musicale giovanile dell'epoca.

Le sette sezioni in cui il materiale è stato suddiviso per comodità d'ascolto, dimostrano con grande efficacia quanto forte fosse la voglia di superare certi confini del linguaggio musicale di allora (non dimentichiamoci che quello è anche l'anno di "Abbey Road" dei Fab Four!) e di quanta contaminazione intellettuale fosse presente nella nuova generazione di musicisti che si andava "progressiva-mente" allargando.

Vicino per certi versi a quello che poi sarà musicalmente presente (parzialmente) in "Third", il materiale contenuto in questa raccolta si presenta come una serie di "flussi creativi" sviluppati nella claustrofobica condizione del minimalismo formale, ma allo stesso tempo espansi alla massima possibilità caleidoscopiche dei timbri naturali (ma soprattutto NON NATURALI) della strumentazione usata.

Ed a proposito di cose "alterate", la moderna tecnologia ci permette adesso di scoprire la meravigliosa melodia nascosta nel "reversed" tape che costituisce l'intero brano conclusivo "Spaced Seven" ... invertendo il procedimento digitale la malinconica canzone sconosciuta prende forma da uno sgangherato Wurlitzer ... un gioiello estemporaneo nascosto ma davvero struggente.

Forse per alcuni è addirittura facile ritenere un disco come questo un semplice "narcisistico outing autocompiaciuto" che probabilmente non meritava nemmeno di essere diffuso pubblicamente perchè nato di per sé stesso senza una volontà realmente "artistica" del gruppo, invece - a leggere con attenzione tra la massa informe dei suoni che lo compongono - SPACED è di fatto una delle più lucide istantanee di un behaviour artistico che ha realmente costituito la base principale per l'emancipazione della musica (e di conseguenza dell'ascoltatore) dalle leggi di mercato dell'intrattenimento, portando all'estrema sintesi la volontà di CAMBIARE il concetto stesso di musica portandola ad indispensabile CIBO per il pensiero.


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