mercoledì 11 novembre 2009

MIKE OLDFIELD - Tubular bells (1973)



... ovvero la favola del brutto anatroccolo.

PINK FLOYD - The wall (1979)



... aka Pink nel Punk ...

Ammesso che sia possibile dire qualcosa di nuovo in merito ad uno dei monumenti della discografia dei PINK FLOYD, di per certo questo non accadrà in questa paginetta cavernosa. Anche perchè è talmente impossibile cercare di reinterpretare la genesi e la realizzazione stessa di questo "concept" senza tornare nel risaputo.

Sappiamo tutti infatti della fortissima impronta paranoica di Waters che permea tutta la vicenda raccontata nell'avventura di Pink (almeno così è chiamato nella versione cinematografica) con il suo proprio disagio interiore ed i suoi traumi psicologici irrisolti.
Ma questa conoscenza così largamente condivisa del tema non dovrebbe distogliere l'ascoltatore dall'apprezzare in toto l'ambiziosa operazione artistica messa in atto in quel 1979, archiviato negli annali per la inevitabile "estinzione" dei dinosauri rock con l'esplosione definitiva del devastante fenomeno punk.

Eppure, se un album come THE WALL, doppio, ponderoso, verboso e per niente alla moda è riuscito a ritagliarsi un suo proprio spazio nella cultura giovanile dell'epoca non credo lo debba solo all'accattivante singolo massificante di "Another brick in the wall" ... in fondo sono solo poco più di tre minuti estratti da un lavoro globale di oltre 70 minuti complessivi.
No, c'è dell'altro alla base del successo planetario di un disco così.
E se anche volessimo ragionare sulla pressione che l'industria discografica ha saputo esercitare sul giornalismo musicale di competenza dell'epoca, a conti fatti non risponderebbe alla domanda del PERCHE' un disco come THE WALL sia diventato così popolare.

La risposta sta invece nella matura magia musicale del "suono floyd" ... languido quando necessario ed inquietante quando inevitabilmente tale ... semplice nella sua essenzialità (basta ricordare l'esecuzione di batteria di Nick Mason nell'introduttiva "In the flesh" così caratterizzata da incredibili "silenzi ritmici nel pattern di base" da risultare semplicemente PERFETTA nel suo essere fin troppo elementare) o l'arpeggio suadente di "Goodbye blue sky" con i suoi intramontabili echi della antica psichedelia di "Grandchester meadow".

In questo CAPOLAVORO nulla è fuori posto (nemmeno la pantomima verbale del processo nella quarta facciata dell'album) e TUTTO risulta prepotentemente immaginifico nello scorrere della puntina sui solchi (o del raggio laser sulla superfice del CD) ... ogni singolo elemento sonoro racconta una storia allontanando il brano precedente od introducendo il successivo in un continuum che impedisce una qualsiasi soluzione di continuità ... almeno fino alla scena della caduta del muro dopo il processo.

Qualunque sia il percorso che un artista intraprende per arrivare a simile straordinaria potenza evocativa è da considerare con grande rispetto ed ammirazione, soprattutto in un caso come questo dove non sono poi così nascoste le paure, i vizi e le pessime componenti autobiografiche.

Quando poi, arriva la TERZA FACCIATA di questo album ... e la sequenza drammatica fino all'inarrivabile "Confortably numb" allora posso dire di esser davvero contento di aver vissuto quelle emozioni in tempo reale ... e di non averle recuperate dal cassetto del fratello maggiore.

L'avevo scritto all'inizio ... qui niente di nuovo ... solo la consapevolezza di aver potuto apprezzare un grande momento d'arte della mia generazione.

BIRDSONGS OF THE MESOZOIC - Faultline (1989)



Combo americano ben conosciuto (ai più attenti indagatori sonori) per le sue rigorose tessiture armonico-melodiche, inquadrate in ossessive marziali ritmiche matematico-minimali (nonostante spesso si presentino in destabilizzanti tempi dispari) e per improvvise, liberatorie incursioni free tutto in un contesto esclusivamente strumentale.

Il lavoro di ricerca dei BOM nasce alla fine degli anni settanta e si incunea subito in uno scenario immediatamente riconoscibile, apparentemente freddo e controllato, squadrato in massicci blocchi di composizione dalla parvenza asettica (direi Kraftwerkiana ... se il suono non fosse diametralmente opposto). La formazione sembrerebbe quasi un quartetto da camera classico (per attitudine) ma moderno (per approccio musicale) nel repertorio acustico abilmente preparato.

Eppure, una volta sintonizzati sulle frequenze questa specie di macchina intonarumori, si cominciano ad intrasentire le straordinarie caratteristiche che rendono unica questa realtà musicale americana, e molto presto ci si rende conto che l'andamento marziale delle composizioni nasconde invece spesso molte piccole sfumature interpretative che di volta in volta costellano le singole composizioni, permeandone le strette maglie sonore con piccole significative microvariazioni emotive.

Da quando poi è presente il sassofono di KEN FIELD, il fattore "umano" è molto aumentato offrendo al contesto sonoro un confortante presidio a 37 gradi centigradi.
Ed è anche per questo motivo che il terzo album FAULTLINE diventa anche il lavoro più ispirato che conclude la primissima stagione creativa della band di Boston ed apre quella che a tutt'oggi è rimasta la definitiva cifra stilistica del gruppo.

Probabilmente il miglior approccio per un neofita del sound dei Birdsongs.

TODD RUNDGREN - A wizard / A true star (1973)

Ci risiamo con il periodo d'oro (sebbene per ammissione dello stesso protagonista troppo "chimico") di Todd Rundgren.

Difficile giudicare con il senso "estetico" le spinte creative indotte dal "behaviour" psichedelico perchè al comune ascoltatore si presenta una tale rivoluzione sonora da lasciare sconcertato e - cosa più importante - "stupefatto" (sic!).

La travolgente magia di AWATS sta proprio tutta in questo elemento dello stupore in cui ci si trova nel sentire accostate tra loro suadenti melodie innocenti della tradizione - commerciale - made in USA ad apparenti demenziali vertigini sonore in un contesto filtrato da continue manomissioni elettroniche. Un case emblematico è proprio una delle canzoni simbolo dell'innocenza Disneyana ("Never never land" di Peter Pan) letteralmente imprigionata da una cornice di suoni malati e troppo artificialmente variopinti per rappresentare uno scenario "stabile" in cui inserire le certezze (benchè comunque visionarie) di un qualsiasi anche improbabile Peter Pan.

Ma questa sostanziale schizofrenica condizione accompagna l'ascoltatore per tutto l'album (soprattutto durante la prima facciate, caratterizzata dalla "suite" intitolata 'International feel') costringendolo a passare attraverso concrezioni sonore clautrofobiche ed ansiogene ("Dogfight giggle") a canzoncine apparentemente più "normali" ("You don't have to camp around") che comunque ricordano l'allora ancora recente trascorso "pastiche/glam" del Rundgren di SOMETHING/ANYTHING.

In realtà però ogni singola canzone di questo disco è un universo a sè stante, fatto di mille colori ed emozioni ("Flamingo" con la sua costruzione alienata ed elettronica nasconde in poco più di 2 minuti e mezzo una poesia che ben pochi avrebbero saputo creare).

Un ulteriore elemento di interesse è dato dal fatto che le canzoni sono essenzialmente tante brevi cangianti digressioni acustiche, mentre i brani più "corposi", ovvero quelli che superano in modo convincente la durata di 3 minuti, sono alla fine solamente cinque ed in un contesto così caleidoscopico sembrano esse stesse delle interminabili splendide suite (tra tutte la memorabile "Zen Archer", vero e proprio manifesto di QUEL Todd capace di lasciare la scena al suono globale presenziando il tutto con poco - ma eccellente - lavoro chitarristico).

L'inevitabile influenza della musica soul ritorna prepotentemente nella seconda facciata dell'album con l'elaborata e super arrangiata "Sometimes i don't know what to feel" ed il raffinato medley "I'm so proud / Ooh Baby / La La means I love you / Cool jerk" fino al definitvo memorabile finale del manifesto toddiano "Just one victory":


"We've been waiting so long,
we've been waiting for the sun to rise and shine
Shining still to give us the will
Can you hear me, the sound of my voice?
I am here to tell you I have made my choice
I've been listening to what's been going down
There's just too much talk and gossip going 'round
You may think that I'm a fool, but I know the answer
Words become a tool, anyone can use them
Take the golden rule, as the best example
Eyes that have seen will know what I mean

The time has come to take the bull by the horns
We've been so downhearted, we've been so forlorn
We get weak and we want to give in
But we still need each other if we want to win

Hold that line, baby hold that line
Get up boys and hit 'em one more time
We may be losing now but we can't stop trying
So hold that line, baby hold that line

If you don't know what to do about a world of trouble
You can pull it through if you need to and if
You believe it's true, it will surely happen
Shining still, to give us the will
Bright as the day, to show us the way
Somehow, someday,

we need just one victory and we're on our way
Prayin' for it all day and fightin' for it all night
Give us just one victory, it will be all right
We may feel about to fall but we go down fighting
You will hear the call if you only listen
Underneath it all we are here together shining still"


...ovvero una lucida, moderna (forse ingenua) preghiera che ha una significativa valenza di contenuto indipendente da un qualsiasi eventuale stato di alterazione "chimica" della creativita indotto nel suo straordinario autore.

A WIZARD A TRUE STAR è un altro disco destinato a cambiare la percezione musicale (soprattutto se incontrato in fase adolescenziale), mettendo l'ascoltatore in condizione di percepire una lettura trasversale del concetto di "canzone" moderna senza per questo diventare vittima della spesso troppo abusata "incomunicabilità d'autore" tipica di una certa "artistry" con atteggiamento snob.

Insomma ... un disco che AMO!