mercoledì 27 gennaio 2010

SOFT MACHINE - The Soft Machine (1968)



A distanza di 32 anni non ho ancora capito in che cosa davvero consista lo straordinario fascino dei primi Soft Machine.

E attenzione, non parlo della deriva jazz progressiva che meritoriamente ha visto il gruppo rappresentare una specie di intelligente perversa fusione di linguaggi differenti tra loro come il jazz, il soul ed il rock. Mi riferisco essenzialmente a quella forma di "psichedelia mutante" che permette ad uno dei più improbabili tra i "power trio" dell'epoca (basso batteria e tastiere) di raccontare storie di laterale esistenza e behaviour in canzoncine dalle melodie apparentemente fragili e lineari sorrette da un potente impianto musicale progressivo "deviato" dalle distorsioni e dalle "mutazioni elettromagnetiche" di strumenti filtrati e manipolati fino all'esasperazione.

Qualunque sia il giudizio artistico, non si può non apprezzare la volontà di andare "oltre", di sperimentare per quanto possibile ogni forma di interazione musicale tra strumenti, personalità e sensibilità dei singoli musicisti coinvolti, uniti verso l'unico obiettivo di spostare i confini del "possibile" nello scenario sonoro (e non solo quello) in ebollizione della gioventù musicale della fine degli anni sessanta.

Suggerire di ascoltare ADESSO i Soft Machine alle generazioni giovani è (per mutuare una citazione da un ben noto "altrove") COSA BUONA E GIUSTA, soprattutto perchè potrebbe essere l'unica speranza per ricordare che per raggiungere nuove frontiere dell'arte bisogna avere anche il coraggio di ricercare nuove soluzioni, cavalcare nuove idee e non avere paura della claustrofobia delle terribili "nicchie" in cui si rischia (anzi si ha le certezza) di essere collocati da generazioni distratte e scarsamente inclini a stimolare le emozioni individuali, preferendo una cultura massificata ed uniformata.

In fondo (ancora metaforicamente) SOFT MACHINE è una pietra, e su quella pietra ...


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