lunedì 4 aprile 2011

JULIAN BERNTZEN





“Waffy town” (2002)
“Pictures in the house where she lives” (2003)
“Rocket Ship Love” (2008)

Dalla fredda Norvegia, una perfetta re-interpretazione del concetto originale e primigenio di musica pop che nelle decadi pre-ottanta ha contraddistinto la musica di intrattenimento ed ascolto (quella, per capirci, che in italia con un singolare aggettivo veniva definita “leggera”).
Il Julian ventiseienne di Bergen (costa occidentale della Norvegia) inizia fin da giovanissimo a frequentare i club musicali della natia città, usufruendo addirittura di uno speciale permesso fornito dalle locali autorità per concedergli (nonostante la sua minore età ) di suonare con il gruppo musicale del padre. Ma questa precoce esperienza sul palcoscenico non lo porta ad una esasperazione del suo stesso essere “pubblico” dal momento che inizialmente Berntzen si riconosce maggiormente nella figura di musicista compositore da studio più che non un vero e proprio animale da palcoscenico.
Ed infatti a conferma di questo aspetto più “riservato” tra il 2001 ed il 2002 compone il suo album d’esordio intitolato “Waffy Town” che altro non è se non un’operina concettuale dedicata alla vita in una piccola cittadina immaginaria (ma evidentemente suggerita da quel natio nord che ben conosce ed ama). Il disco in sé però non ha l’intento di raccontare chissà quali straordinarie fantasie con retoriche immagini musicali, tutt’altro … ed infatti tra le tredici canzoni che compongono la raccolta emerge la voglia di cantare i piccoli dettagli di una città ispirata prevalentemente da alcuni disegni di bimbi da lui stesso raccolti durante una sua estemporanea esperienza come educatore in un campo estivo.
A questi disegni Julian aggiunge poi le avventure di alcuni personaggi inventati e di fantasia con un risultato sicuramente calibrato ed efficace. Il suo talento innato gli permette di “confezionare” il prodotto suonando tutti gli strumenti (ad eccezione delle percussioni) con un’atteggiamento per certi versi riconducibile ad alcuni “one-man-band” tipici della decade dell’impegno per eccellenza (ovvero gli anni settanta). Eppure la leggerezza e la semplicità con cui viene proposto questa specie di giro turistico della “Waffy town” è piacevolissimo e regala oltre quaranta minuti di algida spensieratezza. Un anno dopo è la volta di “Pictures in the house where she lives”, vero e proprio sequel del precedente che mantiene inalterata la freschezza e la spontaneità della scrittura del suo autore. Dopo numerosi riconoscimenti in patria (purtroppo l’europa fa un po’ fatica ad apprezzare lo stile retro-pop del norvegese) viene pubblicato un nuovo album intitolato “Rocket ship love” dove il talento di Julian viene finalmente proposto nella giusta direzione di mercato.
Le sue caratteristiche canzoni acquisiscono una maggiore solidità con una più decisa marcatura ritmica che sostiene con convinzione l’impianto musicale e permette ai brani di risultare accativanti anche alle “estremità inferiori” degli ascoltatori, inducendo anche il famigerato “piedino” ad un movimento ritmico accondiscendente. Ovviamente anche in questo ultimo riuscitissimo disco i riferimenti musicali che inevitabilmente emergono tra le pieghe del suono di Berntzen sono proprio dei veri e propri omaggi ai grandi di una volta quali Beatles, Zombies e Beach Boys su tutti, ma anche il glam-pop della prima metà degli anni settanta inglesi (Move, Kinks). Grazie al giovane norvegese quindi la musica pop aggiunge un nuovo tassello per il proprio archivio, nella speranza che non vada dimenticata la sua caratteristica forma di intrattenimento affidata alla discrezione, alla sobrietà senza eccessi (né musicali ne “verbali”) di cui negli ultimi anni ne abbiamo perse le tracce, a vantaggio di una sfrontata ricerca del “clamoroso” e del “sopra le righe”, una spezia questa che viene molto spesso aggiunta proditoriamente in quantità esasperata tipicamente in presenza di “merce” debole, se non addirittura scadente.

FAITHLESS - "To all new arrivals" (2006)



La musica elettronica europea ha da tempo trovato una sua via commerciale grazie allo straordinario movimento elettro-pop che – a partire dagli anni ottanta – ha saputo attirare intorno ad una suono tecnologico, semplice ed accattivante una sempre più ampia fascia di appassionati ascoltatori ed entusiasti.
Il panorama della proposta commerciale si è visto poi nel tempo ulteriormente declinato in mille e mille differenti correnti più o meno creative e propositive (e a queste pseudo sotto categorie appartiene anche la tanto famigerata e spesso vituperata “italo-disco”) che hanno dato vita a loro volta a veri e propri fenomeni musicali sicuramente destinati a bruciarsi sul mercato in pochi mesi, ma che in alcuni casi hanno anche saputo consolidare la propria notorietà ed elaborare un interessante percorso creativo duraturo ed in continua evoluzione.
Faithless nasce nel 1995 in Gran Bretagna grazie all’incontro tra “operatori” del settore – non necessariamente dei veri e propri musicisti quindi – quali i Djs Maxi Jazz e Rollo e la cantante Sister Bliss (ex bambina prodigio capace di suonare violino e pianoforte già all’eta di cinque anni … ma diventata nel frattempo Dj) nella tipica situazione trendy underground della sempre cangiante scena musicale dell’entertainment d’oltremanica. Assumendo suggestioni provenienti da miriadi di produzioni musicali (dal soul al rock al progressive al rhythm’n’blues) da tempo metabolizzate e sapientemente utilizzate professionalmente, il trio rimescola le carte per proporre un melange sonoro che raccoglie in sé stesso easy listening, avanguardia, effettistica straniante e tessuti umoristici conditi da ritmiche accattivanti e – particolare non di poco conto - non sempre eccessivamente (e spesso ottusamente) aggressive. La cura e la raffinatezza con cui Faithless quindi crea il proprio “sound” diventa un personalissimo marchio di fabbrica che, considerata la quantità di ingredienti altrui utilizzati, rappresenta un eccellente punto d’arrivo per il genere. Dopo diversi album di discreto successo, iniziano anche le collaborazioni a più alto livello, che prevedono la partecipazione di alcuni ospiti illustri (più o meno trendy nel mercato commerciale) in alcune nuove canzoni.
E’ il caso di Dido, Robert Smith, Cat Power, Harry Collier ed altri che proprio in quello che risulta l’album più riuscito del progetto, ovvero il quinto “To all new arrival” – pubblicato nel 2006 – propongono la loro partecipazione aggiungendo le loro caratteristiche voci alle elaborate e sempre più intelligenti tessiture elettroniche del gruppo. Collocati spesso nella categoria del Trip-Hop britannico nell’evolversi della loro carriera, Faithless ha però saputo distinguersi dalle figure storiche (Tricky, Massive Attack, Portishead) che qualche anno prima avevano di fatto inventato ex-novo quel suono. Con una straordinaria tournèe durante il 2007 il gruppo ha consolidato il successo di pubblico ottenuto in patria nonostante il dato di vendita dell’ultimo album li abbia invece visti “fermarsi” al terzo posto della classifica britannica (ma si sa che in questi ultimi anni, a seguito della tecnologia e della svolta della diffusione della musica online, la vendita del supporto prodotto di fatto non rappresenta più una credibile fonte di verifica del successo o dell’insuccesso di un progetto musicale).
La straordinaria capacità evocativa della musica di Faithless ha anche generato una serie di produzioni video non ufficiali e paralelle in cui sconosciuti fans da tutto il mondo si sono cimentati nell’editing creativo di immagini al suono travolgente di alcuni tra i brani più famosi del gruppo. Anche altre realtà che operano nel campo del video marketing promozionale hanno “approfittato” della vivace brillantezza della musica di Faithless per realizzare a loro volta piccoli capolavori di moderna video-arte.
La inevitabile successiva capillare indipendente diffusione online di tutto questo materiale ha poi portato alla band inglese un ulteriore elemento di popolarità che ha attirato l’attenzione sempre maggiore di nuovi appassionati.


ROSE POLENZANI





“Anybody” (1999)
“Rose Polenzani” (2001)
“August” (2004)

Di voci femminili la musica americana (ed internazionale, ovviamente) ne ha proposte sempre molte. La tradizione della cantautrice alter ego del sempre affascinante “hobo” errante annovera tra le sue fila esempi di grande e straordinaria potenza evocativa e creativa fin dalla metà della decade cruciale di fine novecento che furono gli anni sessanta.
Dalle figure eteree ed inarrivabili come Linda Perhacs all’impegno politico di Joan Baez, dalla forza espressiva della voce dilaniante di Janis Joplin alla maledizione tossica della povera Karen Dalton, dalla lucida affascinante intelligenza commerciale di Carole King alla spigolosa vocalità jazzata di Annette Peacock, l’altra meta del cielo musicale d’America davvero brilla di stelle note e meno note in grado di disegnare memorabili scie luminose a squarciare spesso un troppo oscuro autocompiacimento maschile.
Sono ancora tantissimi i nomi che anche nelle nuove generazioni hanno contribuito e stanno ancora contribuendo a mantenere viva la vis creativa femminile e quindi probabilmente potrà sembrare limitativo scegliere la giovane voce di ROSE POLENZANI per rappresentare tutte le meraviglie dell’universo parallelo … limitativo forse, ma significativo anche. Per nulla affascinante – o meglio – assolutamente non interessata a cercare nell’aspetto fisico accativante motivo di interesse nel possibile pubblico, la giovane Rose (nata a Waukesha, Wisconsin nel 1975) inizia a frequentare il circuito folk indipendnete dell’area di Chicago ed il risultato è immediatamente disponibile quando nel 1998 in modo del tutto autonomo ed autofinanziato, pubblica una sua prima raccolta di canzoni intitolata “Dragersville” caratterizzata da atmosfere desolate ed oscure, figlie di una ricerca della luce appena iniziata.
Sempre nel 1998 partecipa al festival “esclusivamente al femminile” del Lilith Fair (voluto ed organizzato dalla straordinaria cantautrice canadese Sarah McLachlan) mentre l’anno successivo si fa notare nell’ambito delle manifestazioni a margine del celeberrimo Sundance Film Festival di Robert Redford. Proprio all’indomani dell’esperienza e della visibiltà ottenuta grazie al palcoscenico della più importante manifestazione cinematografica indipendente di questi ultimi anni, Rose pubblica (per la Daemon Records) “Anybody” splendido esempio di profonda sincerità emotiva raccontata in quasi totale solitudine. Eppure esiste nella musica di questa giovane cantautrice un certa quale dolcezza che lascia tramortiti per la delicatezza con cui si insinua anche nelle canzoni più tristi e malinconiche (ascoltare “Look no hands” per credere).
E non esiste nemmeno un singolo momento che possa sembrare di mera autocompiaciuta introversione, anzi. Ed infatti l’album successivo, intitolato semplicemente “Rose Polenzani” e prodotto nel 2001 grazie ancora alla illuminata ospitalita della Daemon Records, è una specie di incontro con altri musicisti che crea un’atmosfera di grande e vera emozione creativa. Dopo anni trascorsi a registrare con le proprie limitatissime attrezzature amatoriali, finalmente Rose collabora con una vera band per attraversare (portando comunque con se le sue atmosfere acustiche così personali) un ambiente musicale più vicino ad una forma di indie-rock certamente più aggressivo nei toni, ma egualmente evoluto e raffinato. Come troppo spesso accade ormai un mercato distratto e scarsamente interessato ai “contenuti” e alle “emozioni vere” lascia scivolare via queste meravigliose produzioni annullandole e relegandole nel limbo delle tante “occasioni perdute”.
Per questo motivo Rose registra nuovamente in solitudine un disco clamoroso, perfetto nella sua inquieta serenità. “August” (uscito in totale autoproduzione nel 2004) è a tutt’oggi probabilmente il migliore esempio dell’adamantino talento della ragazza di Waukesha.
Da quel momento la carriera sua carriera si è spesso incrociata con altre cantautrici della sua stessa generazione sfociando in pregevoli collaborazioni palesemente fondate sul reciproco rispetto e condivisione emotiva (tra tutte segnalerei quella con un’altra meravigliosa cantante della nuova scena americana, un’altra “rosa” … ovvero ROSE COUSIN). Un talento capace di emozionare davvero.