venerdì 17 luglio 2009

STEVE TILSTON - An acoustic confusion (1971)




Tra il 1970 ed il 1973 nel Regno Unito operava THE VILLAGE THING, un'etichetta indipendente dedicata esclusivamente alla musica folk "alternativa" (ovvero come sinonimo di "originale" benchè ricca di elementi della tradizione popolare passata).
In quell'arco di tempo, l'etichetta è riuscita a pubblicare 25 albums e solo 3 singoli (una volta si chiamavano così i "45 giri") tutti in tiratura evidentemente limitata e artigianale.

Tra questi album, adesso pressochè tutti di difficile reperibilità, nel 1971 venne pubblicato "An acoustic confusion" di Steve Tilston. La straordinaria asfittica distribuzione dell'epoca non riuscì certo a far veicolare opportunamente quell'album, nascondendo così alle generazioni contemporanee un capolavoro di proporzioni difficili da descrivere senza provare un certo quale rammarico, se non addirittura "rabbia".

Steve Tilston (Liverpool 1950) proponeva una miscela originale di tradizione e stile chitarristico ben noto agli appassionati della scena illuminata allora da personaggi quali Bert Jansch (con cui ha anche gestito addirittura un club folk a Londra), Donovan, Wizz Jones e Davy Graham per dirne solo alcuni. Ma a questo tratto stilistico lo stesso Tilston aveva aggiunto anche quel modo di cantare malinconico del primo Nick Drake e anche del John Martyn più intimista e riflessivo.
Pensando bene a questo contesto, e soprattutto ASCOLTANDO questo capolavoro, risulta adesso troppo clamorosa la "voragine" in cui questo disco è stato inghiottito ingiustamente per anni.

In tempi più recenti, qualcuno si era effettivamente preso la briga di ristampare questo preziosissimo documento in un formato tecnologicamente moderno ed affidabile ... ma con un perverso e sottile dubbio gusto di farlo in EDIZIONE LIMITATA A 500 COPIE solamente.
E così la voce, la chitarra e le emozioni contenute in questo capolavoro sono state destinate nuovamente a rientrare in una bruma densa e fitta foschia che solo pochi avveduti collezionisti di tanto in tanto hanno avuto la possibilità di squarciare.

La buona notizia però è che nuovamente qualcuno - questa volta più accorto - ha definitivamente riproposto sul mercato questa preziosa registrazione ... che vi consiglio di prendere in considerazione se amate una certa musicalità cantautoriale d'albione.

Inevitabile - a questo punto - il link ... nella speranza di contribuire a mantenere vivo il ricordo di quella preziosa stagione.

martedì 14 luglio 2009

NEIL SADLER - Theory of forms (1999)



Quando mi capita di sfogliare le note di copertina di un disco prodotto da un compositore per me sconosciuto e mi trovo davanti ospiti del calibro di Mike Keneally, Bruce Fowler, Walt Fowler, Albert Wing e Kurt McGettrick credo sia automatico decidere di ascoltarne il risultato, con l’auspicio – non sempre confortato- di trovarsi di fronte ad un prodotto musicalmente di buona qualità.

In questo caso la mia aspettativa non è stata disattesa e questo album di Neil Sadler, tastierista americano che ha voluto accanto a sè personaggi del calibro di quelli sopracitati per realizzare questo ambizioso progetto definibile new-progressive-contemporary-jazz, è proprio bello.

Intendiamoci subito, se tra di voi c’è qualche estimatore di Miles Davis, magari di quelli che ritengono che dopo Miles si sia persa la strada della sperimentazione nel jazz moderno, allora questo disco potrà permettervi di elencare le numerose influenze compositivo strutturali tipiche di Davis a cui in misura maggior o minore tutti i moderni compositori o performer jazz sono riconducibili.

Ma se invece apprezzate una radice rock europea venata da scomposte incursioni free-form di moderni solisti quali Zorn, Skopelitis o Didkowsky (per citare alcuni “neurockers”...) allora questo è il disco che fa per voi. All’ascolto poi riaffiora spesso la composizione moderna tipicamente nordamericana (David Borden, Birdsongs of the mesozoic, Doctor Nerve), con l’aggiunta però in questo caso di una potentissima sezione fiati che travolge tutto e tutti.

Maiuscola veramente la prova di Keneally, tanto visionario ed imprevedibile come non mai quanto a volte capace di ridurre in brandelli il tipico chitarrismo super tecnico di musicisti quali Steve Vai e ricontestualizzarsi con un pesante suono rock (pedale wha-wha compreso...) in uno scenario assolutamente ricco di intrecci, patterns, moduli e drive rigorosamente previsti. Del resto, questo è il contesto sonoro in cui il compositore Neil Sadler li ha valorosamente costretti (si fa per dire ovviamente) a destreggiarsi.

Anche i fratelli Fowler (ah, dimenticavo, c’è anche Steve al sax ...) che danno vita ad una performance di alto virtuosismo e gusto, con una particolare meritoria citazione per un intramontabile, inossidabile Bruce in grandissimo spolvero. Tra i titoli in scaletta vi segnalo l’iniziale Jazz bastards o Dna for beginners, quest’ultima con una splendida introduzione sorprendentemente Frippiana (soundscapes ...per capirci), la lunga e complessa Theory of forms e la pirotecnica esasperazione di wFb.

Un’ultima doverosa citazione la meritano anche i due bassisti, validissimi comprimari (ma poi nemmeno tanto comprimari) degli altri nomi già citati: Bryan Beller e Joel Woods. Per ulteriori informazioni il mio consiglio è di visitare il sito della Immune Records o provare a contattare direttamente il compositore via email all’indirizzo: nsadler@apc.net

mercoledì 8 luglio 2009

mercoledì 1 luglio 2009

BOB BELL - Necropolis (1978)



FERMI TUTTI!

Ricominciamo ad ascoltare questo tizio ... questo tale BOB BELL, chitarrista (forse polistrumentista) sta per mettere in crisi anni di ascolto progressivo e post-prog (specie USA) in pochissimi secondi.
Forse è il caso di riflettere un momento ... e di cercare di capire COSA sto ascoltando.

Trattasi di una specie di kraut-rock evoluto, venato di schizofonie fripp-crimsoniane pre-Henry Cow ... o forse addirittura una chitarra che anticipa la NO-Wave della grande mela o il noise-rock degli improvvisatori folli a-la-Henry-Kaiser (e del suo collega e "amico" Fred Frith).

Non so cosa succede, ma datando questo reperto 1978 devo rileggere alcuni decenni dei parametri "creatività e coraggio" fin qui da me conosciuti.

L'aroma delle lingue di allodole in salsa si sprigiona in tutto il fuoco di fila di questa specie di chitarra di Bob Bell totalmente priva di controllo ... ma fissare qualcosa di questo imprendibile caotico andamento sonoro è come cercare di fissare dei particolari precisi di paesaggio guardando fuori dal finestrino di un treno in corsa.

Nella seconda facciata del disco viene fatta sparire la chitarra (forse letteralmente "disintegrata" nelle esecuzioni del primo lato) ... ed il terrorismo sonoro è appannaggio di un rutilante pianoforte free ed un sax in continuo "preset snork generator" ad opera dello stesso Bell.

Smetto di riflettere ... e ascolto.

Un capolavoro ... un vero respiro di ... anidride carbonica ... ma "pura" però!

......... aargh!

nota informativa:
BOB BELL, canadese. di Vancouver, B.C.
Nel 1978 ha stampato autonoma-mente una tiratura privata in pochissime copie di questo clamoroso evento musicale a cavallo tra la psycho-schizoponia fripp-crimsoniana ed il free jazz di Ornette Coleman come se interpretati da rigorosi musicisti della colonia degli Inner Space studio.

Line up:
BOB BELL - chitarra (lato 1)
Mark Franklin - basso (lato 1)
Paul Franklin - percussioni (lato 1)

BOB BELL - alto sax (lato 2)
Paul Plimley - pianoforte (lato 2)
Lyle Ellis - contrabbasso (lato 2)