giovedì 15 giugno 2017

ROY BATTERSBY - THE BODY (1970)















 
... finalmente (?) dopo tanti anni ho potuto guardare con la dovuta calma (e nella dovuta qualità) questo episodio della produzione audiovisiva inglese degli anni settanta ben noto grazie alla colonna sonora ad opera di tali Ron Geesin e Roger Waters (in quasi contemporanea con la elaborazione della Madre dal Cuore Atomico). Come già si sapeva, THE BODY è un documentario "verité", dove nulla è elaborato con stratagemmi estetici o narrativi perché è davvero una cronaca organizzata cronologicamente dello stato di "essere umano", dalla nascita alla morte passando per le tecnicalità della macchina uomo/donna e le maturazioni psico-logiche dell'essere pensante.

A detta del regista Roy Battersby, "The Body è un documentario che esplora l'esperienza fisica dell'essere UN umano" (e mai come l'articolo indeterminativo italiano rende perfettamente l'idea del concetto in sè).

Lunghe (non sempre gradevoli) endoscopie (tecniche di ripresa rivoluzionarie all'epoca se applicate ad un lungometraggio divulgativo), riprese ai raggi X, forti crudité in sala parto (onestamente credo che la scena finale del parto abbia creato qualche problema allo stomaco di più di qualcuno tra il pubblico presente in sala all'epoca), sesso esplicito (voyeuristicamente  anche oltre il necessario richiesto dalla trattazione in sé e per sé), immagini con rilevamento termico, dialoghi (difficili da seguire dato lo stretto idioma d'Albione) al limite del grottesco e argomentazioni concettuali figlie di QUEL tempo preciso fanno di questo prodotto un interessantissimo (ma piuttosto difficile da guardare senza "conseguenze") reperto di quei giorni che adesso risulta allo stesso tempo impietosamente ingenuo e irriverente, nel pieno stile di una cultura che stava prepotentemente distruggendo le convenzioni comunicative nel nome di una "libertà consapevole" purtroppo solo in embrione all'epoca e - a quanto pare - mai completamente portata a compimento negli anni a venire nelle società occidentali. 

L'uso documentaristico esplicito e apertamente divulgativo di concetti fino a quel momento relegati alle conversazioni intime tra coetanei ha avuto altri esempi (in certi casi anche trascurabili ed ambigui) nella produzione visiva di quegli anni, basti pensare al sorprendente "Helga - Vom Werden des menschlichen Lebens"  di Erich F Bender (conosciuto in Italia come "Helga - lo sviluppo della vita umana" datato 1967) o ai meno sinceramente divulgativi e più essenzialmente dissuasivi contro un drug-behaviour crescente in quei giorni come "Alice in Acidland" di John Donne (1969).

In "The Body " non viene per nulla trascurato l'aspetto "sociale" ed antropologico dell'essere "UN umano" nell'organizzazione delle comunità, documentando come l'uomo-macchina  sia una condizione che si subisce mentre la macchina-uomo sia in realtà un'affascinante ricerca. Le lunghe sequenze di una catena di montaggio automobilistica vengono fatte quasi impietosamente sfumare in un pensionato per anziani ridotti a "mere presenze".

L'evoluzione della condizione umana, il percorso che porta dalla nascita al decadimento della vecchiaia è documentata in maniera impietosa e "scientifica", un atteggiamento che benché possa sembrare distaccato in realtà crea un senso di ineluttabilità tale da far vivere momenti di vero incubo "esistenziale" ... ed in questo caso non ci sono riflessioni consolatorie ad aiutare.

Ingenuità e cinismo vengono livellate dall'atteggiamento scientifico, ma anche questo aspetto potrebbe indurre lo spettatore a profonde riflessioni perché la vita e l'idea della morte permeano quasi costantemente questo percorso visuale e concettuale (e del resto come potrebbe essere altrimenti?)

Da un altro punto di vista, la visione di "THE BODY" comunque ha il pregio di far apprezzare finalmente "nel contesto" la musica prodotta allo scopo dall'allora Pink Floyd in collaborazione con il geniale e vulcanico Ron Geesin, una atipica colonna sonora dove il senso di libertà espressiva prevale su qualsiasi funzionalità narrativa, a tal punto che il disco prodotto forse è assolutamente in grado di vivere di luce propria, probabilmente creando di riflesso una maggiore astrazione concettuale sull'argomento iniziale dato come traccia ... in questo modo probabilmente quella musica racconta molto meglio "il mistero" dell'argomento di partenza perché lo insinua nella percezione individuale, riportandolo fatalmente ad una "riflessione" privata, ad una più intima ricerca di risposte (e domande ulteriori) a riguardo.

Il DVD pubblicato nel 2013 dalla Network su licenza originale della StudioCanal, ha il pregio per nulla trascurabile di contenere tra le extra features la "The Body suite", un montaggio inedito della musica del film (di gran lunga diversa dalla colonna sonora pubblicata). E' rigorosamente in MONO ma nonostante questo evidente limite, l'ascolto della suite è sicuramente più che valido per apprezzarne lo spirito creativo originale e soprattutto per riascoltare quanto ufficialmente prodotto successivamente nella colonna sonora pubblicata, per meglio cogliere le geniali scelte nei dettagli di post-produzione applicate dai due autori finalmente liberi di dare al suono quella centralità non richiesta nella visione della pellicola ... il che riporta la musica (gli esperimenti sonori e bio-sonori) di Geesin & Waters al loro  notevole valore artistico ... cioè, esattamente il punto da cui ero partito per iniziare a guardare questo "The Body".



venerdì 9 giugno 2017

ROGER WATERS - Amused to death (1992)






















... di incubo in incubo questo concept datato 1992 era fino a qualche settimana fa l'ultimo sforzo creativo di Roger Waters, ma riascoltato oggi racconta (in cronologia rovesciata) una avvenuta  ulteriore crescita di consapevolezza dell'autore artefice del recentissimo "Is this the life we really want?".

Che Waters non sia un entusiasta del suo tempo e che aspiri sempre a ricordarci le miserabilia di questo mondo umano non è certo una novità ... ed in fondo è anche per questo che di generazione in generazione l'interesse per la sua prospettiva escatologica claustrofobica e pessimista diminuisce al cospetto di un mondo fatto di velocità e superficiali ( o semplicemente essenziali) valutazioni esistenziali. 

A maggior ragione la cosa si rende evidente quando il "concetto" alla base di questo lavoro è proprio l'indifferenza, la superficialità, l'assuefazione al brutto, al male che l'attuale contemporaneità ci racconta come un valore ormai acquisito da una (o più) generazioni senza più alcuna volontà di combattere, riflettere, giudicare ed indignarsi.

Così ascoltando questa ennesima alienante dissertazione musicale senza speranza ci si confronta nuovamente con il sogno fallito di un'altra generazione, quella post-psichedelica degli anni settanta in cui - grazie all'arte - sembrava possibile evolvere tutto verso una migliore e più giusta percezione dell'umanità (occidentale, ovviamente) ...

Nella feroce verbosità di questo disco è scaricata tutta la rabbia di questa frustrazione esistenziale condita da traumi infantili, senso di onnipotenza giovanile e rassegnazione matura; ovvero tutto ciò che ha caratterizzato la vita dell'autore in questione perché ancora una volta è indispensabile tenere ben presente la forte connotazione autobiografica quando si ascolta una qualsiasi proposta musicale di Roger Waters (con, e soprattutto senza, i Pink Floyd).

La musica? ah già, la musica!
Echi tardo-floydiani (in "Watching TV" gli "echoes" sono addirittura VERI) fatti di grandi cori femminili, rumori alieni, cani abbaianti (quasi fossimo tutti con Paul Newman sul set di "Quintet" di Altmaniana memoria), switching frequenti di canali televisivi (che ci ricorda ancora una delle sue ossessioni già raccontate con il verso scritto ... "sul muro" "I got thirteen channels of shit on the T.V. to choose from"). Certo, Jeff Beck e la sua chitarra si distingue per la sua presenza (per quanto trovo discutibile la scelta di chiedergli di essere più "gilmouriano" dell'originale) ma anche riascoltandolo per l'ennesima volta mi rendo conto che non è la musica ad essere il focus di questo album (per quanto assurdo possa sembrare).

"Amused to death" (apparente omaggio al libro di Neil Postman "Amusing ourselves to death") è un'opera che non lascia spazio alla speranza e paradossalmente pretende di intrattenere l'ascoltatore snocciolando lunghi elenchi di tristi rassegnate riflessioni ... al punto che mi è venuto forte il dubbio che il titolo dell'album abbia più a che vedere con un assonante "I am used to death" ed è in questa prospettiva che ancora oggi lo ascolto con grande rispetto ed attenzione.




giovedì 8 giugno 2017

ROGER WATERS - Is this the life we really want? (2017)























... che strano effetto ...

Era tanto tempo che non ascoltavo un disco di Roger Waters, o forse era tanto tempo che non mi concentravo sulla sua inconfondibile voce "dylaniata" perché magari distratto dall'ambiente floydiano in cui la trovavo immersa nei miei più recenti ascolti (di cui non sarò naturalmente mai stanco e di cui avrò sempre bisogno in determinati momenti).

Così, quando è arrivata "Deja Vù" (la seconda traccia di questo nuovo album) ho avuto la sensazione di ritrovare un vecchio amico alle prese con "nuove sue cose" da raccontare ed è stata una sensazione confortevole e rassicurante (nonostante fin da subito le sue parole si siano manifestate nella sua cruda realtà e certamente non dirette verso una "qualche luce").

Alla fine dopo tanti anni siamo ancora sempre sul registro claustrofobico, nevrastenico, incazzoso ed isterico che tutti gli appassionati del fluido rosa conoscono (o dovrebbero conoscere) benissimo, ma questa volta sembra essere addirittura più autoindulgente del solito, più cupo e rassegnato di altre volte. La sua chitarra acustica è l'ideale per offrire a tutti noi la sua cupa purezza e gli abbondanti archi in arrangiamento sottolineano e dimostrano che l'uomo è cresciuto anche nella dimensione più "formale" della gestione della musica intorno a lui ... ma allo stesso tempo i disturbi elettronici, i rumori d'ambiente, le voci radiofoniche ed i sussurri non identificati ci riportano inevitabilmente ad una forma "disturbata" di poesia ... la SUA ... incredibilmente SUA e per questo in fondo sento di  continuare ad amarlo, per una ostinata e cocciuta coerenza fatta di rabbia e risentimento verso qualcosa/qualcuno di evidentemente irraggiungibile in questa vita ... e non è un caso che la parola "god" sia spesso presente nelle sue liriche.

Non è facile rispondere alla significativa domanda che pone il titolo stesso di quest'album, forse è addirittura impossibile pensare di argomentare a riguardo ... ma preferisco modificare quella domanda trasformandola in "Is this the Roger Waters album we really want?" a cui mi sento di rispondere con uno stentoreo "SI!"

martedì 6 giugno 2017

OCTOPUS - The boat of thoughts (1976)






















... a cavallo tra la prima e la seconda metà della decade aurea del rock progressivo si manifestò un fenomeno decisamente interessante, una evo/involuzione del linguaggio prog documentabile dalla carriera di gruppi sicuramente interessati ad elaborare le composizioni in senso rapsodico e con complessi momenti di alternanza dinamica, ma non talmente complessi come alcuni dei mostri sacri del genere e quindi (forse anche un po' mutuando da certo stile semplice - ma NON BANALE - di certo pop Canterburyano) si fece avanti una generazione di gruppi di "light progressive", meno pretenziosi dei supergruppi ormai in via di estinzione e francamente più accessibili ad un pubblico che manifestava anche il bisogno di sentirsi "confortato" in ascolti non troppo astrusi ed impegnativi.

L'esempio più clamoroso di questo sottogenere musicale del rock è certamente l'albionica band dei Camel di Andrew Latimer e Peter Bardens che in Europa continentale sembrò addirittura fare scuola con quel modo molto educato e mai troppo estremo di suonare il rock elettrico.

E gli OCTOPUS che ebbero l'opportunità di occupare il numero "9" del catalogo Sky Records rivolgevano il proprio messaggio a quel pubblico di adolescenti appassionati dei Camel.

Quanto di positivo (e di negativo) si possa dire della band inglese vale esattamente per questo combo di Francoforte, con l'aggiunta di due critiche non proprio indifferenti: in primis la voce della cantante Jennifer Hensel che cercando di cantare imitando l'inarrivabile Sonja Kristina (Curved Air) in realtà manifesta limiti di intonazione, creatività ed espressione davvero notevoli; in secondo luogo non ci sono grandi individualità tecniche in grado di regalare qualche melodia o qualche assolo superiore ad un esercizio di patronato amatoriale ... alcuni temi "full band" sono sicuramente interessanti, ma la mancanza di elementi distintivi appiattiscono l'intero lavoro.



WOLFGANG RIECHMANN - Wunderbar (1978)























... è già il 1978 quando si fa evidente l'influenza di certa elettronica "di casa" e non è un caso se iniziano a farsi vedere i primi "umanoidi", i primi post hippies elettronici (sulla scia dei Mensch Maschine di Dusseldorf, per capirci).

Riechmann utilizza molti strumenti per seguire una strada sonora molto diversa dalle "macchine" di cui sopra e molto ben inserita nello stile dell'etichetta che nel frattempo si è chiaramente indirizzata alla produzione cosmico-minimale elettronica sfornando dischi di indubbio interesse e valore artistico.

La dimensione "cosmica" rimane la cifra stilistica principale di questo "Wunderbar" che poco si discosta quindi da lavori di altri compagni di etichetta (quali ad esempio Nik Tyndall) ma il risultato qui proposto è assolutamente degno di ascolti dedicati (sempre che si sia interessati alla ben nota e già citata krautica cosmicità, ovviamente).



HARLIS - Harlis (1975)






















...l'avventura Sky Records GmbH inizia nel 1975 con questo album di puro hard rock (all'americana!) di questa band chiamata Harlis e prodotta da Gunter Korber e Conny Plank.

Il tutto non potrebbe essere più lontano da quello che poi sarebbe stato la direzione stilistica della label, ma è curioso ed interessante allo stesso tempo ascoltare quanto "internazionale" fosse sentito il linguaggio del "rock" in una più che evidente marcata matrice  americana.

I brani risultano gradevoli e ben arrangiati, proposti con un inglese-germanico non particolarmente brillante, ma evidentemente in quei giorni la cosa non rappresentava certo un problema credendo ingenuamente che il mercato inglese avrebbe accettato qualsiasi interpretazione del proprio idioma per concentrarsi sulla proposta musicale in generale (ma così non fu né allora e nemmeno in tempi più recenti, salvo occasionali eccezioni, per qualsiasi produzione al di qua della Manica).

E' bene comunque ricordare che nel 1975 il vento stava già cambiando verso una forma di rock più elementare e crudo ed il punk era già alle porte pronto a devastare il barocco panorama progressivo prima di aprire la strada per la cupa stagione della new wave (elettrica ed elettronica di fine '70) ed è quindi facilmente comprensibile che prodotti come questo (e molti altri in quel momento) non potessero aspirare ad un riconoscimento consistente da parte di un pubblico che (ri) cominciava a dipendere solo ed esclusivamente dalle "tendenze" discografiche diventando definitivamente eterodiretto nei gusti e nelle scelte.



MICHAEL ROTHER - Flammende herzen (1977)






















... l'ex NEU (anche se molti dimenticano la sua breve partecipazione nel 1971 con Klaus Dinger ai primi Kraftwerk del solo Florian Schneider ancora in via di definizione) inaugura la sua collaborazione con la Sky Records GmbH registrando nella seconda metà del 1976 questo album in compagnia di Jaki Liebezeit (CAN).

E' la celebrazione del suo tipico chitarrismo, fatto di suoni straordinariamente curati (siano essi "puliti" - quasi "frickiani" - o caratterizzati dalla distorsione "fuzz" propria dei pedali a disposizione in quei giorni) e dei suoni ovattati di batteria .... un vero marchio di fabbrica dei NEU! che erano stati.

Tastiere minimali e temi di chitarra semplici, elementari ed armonizzati quasi sempre per quinte inseriti in contesti dalla ritmica costante a mero supporto, oppure raccolti in brevi flussi senza tempo marcato in una dimensione quasi "eniana" tipica di lavori quali quelli contenuti in "Another green world".

Per me personalmente questo è il VERO suono "Krautrock", quello ingenuo, sincero ed onestamente originale che - pur senza raggiungere le vette creative di Faust, Kraftwerk o CAN - merita un posto di rilievo in quella stagione musicale mondiale di fine anni settanta.

Da ascoltare e riascoltare


PHANTOM BAND - Freedom of speech (1981)






















 
 
... l'uscita numero 65 della Sky Records GmbH raccoglie il lavoro di uno tra i più quotati protagonisti della scena musicale germanica degli anni '60 e '70 ... ovvero quella straordinaria macchina da ritmo chiamata Jaki Liebezeit, vera portante essenziale del suono dei mitici CAN (assieme al basso lunare di Holger Czukay).

Dopo aver realizzato nel 1980 un primo album con questo progetto in compagnia di Rosko Gee (altro collaboratore del progetto CAN), il suono della banda fantasma si evolve verso un'essenzialità quasi minimale vicina allo zeitgeist sonoro di "certa" oscura new wave qui però scevra dell'elemento ritmico meramente elettronico (e del resto con uno come Liebezeit ai tamburi, sarebbe stato davvero sacrilego l'uso di una qualsiasi "drum machine" elettronica.

"Freedom of speech" quindi non nasconde una certa attenzione verso una tendenza popolare fatta di "cassa-in-quattro" ma allo stesso tempo non rinnega il dna krautico ossessivo tipico di quel sistema sonoro spaziando anche volentieri in direzione di un quasi-ambient post psichedelico.



SHAA KHAN - The world will end on friday (1977)

.. la Sky Records GmbH principalmente viene ricordata per essere stata una vetrina cosmica, un laboratorio di suoni proiettato verso lo spazio infinito, ma in realtà l'etichetta di Gunter Korber fin dalle sue prime uscite ospitava nel catalogo band di solido rock krautico (sia hard rock che pseudo progressive) e Shaa Khan sono infatti un eccellente esempio di questo aspetto editoriale.

Fatalmente il "lato rock" dell'etichetta non aveva certo le caratteristiche originali della via cosmica quanto piuttosto una dimensione fin troppo derivativa da quanto proveniente dall'Inghilterra permeasse il mercato discografico germanico.

Per certi versi comunque quanto spesso definito come "Kraut rock" ha avuto una "sua" caratteristica peculiarità che lo rende facilmente riconoscibile agli ascolti attenti per la sua apparentemente inevitabile matrice "floydiana" mescolata con suggestioni più romantiche provenienti da esperienze più marcatamente progressive.

In questo caso specifico la band in questione, nata essenzialmente con un repertorio di covers dei Deep Purple e Led Zeppelin, si è ben presto evoluta nella direzione di altre band quali Ufo, Nektar o Earth & Fire, verso un progressive piuttosto leggero ravvivato e drammatizzato soprattutto dall'uso delle doppie voci alternative nel canto.

"The world will end on friday" è un disco che ha probabilmente il suo momento migliore proprio nel visionario titolo e nel conclusivo brano intitolato "Seasons" e sicuramente non è da considerarsi "patrimonio dell'umanità", ciò nonostante ricorda che anche di questa musica si è cibata la nostra generazione di riferimento nelle lande germaniche.

ADELBERT VON DEYEN - Nordborg (1979)

... è uno dei dischi che contribuiscono a raccontare la stagione musicale europea vissuta alle porte del cosmo, o almeno di quello che veniva percepito come tale al di fuori della visione britannica dello stesso.

Nella sua semplicità, staticità, algidità ed ingenuità, "Norborg" nelle sue due lunghe suites è un perfetto documento di quel sogno siderale che sembrava aver convinto molti musicisti ad intraprendere lunghi viaggi sonici in compagnia di minuscole macchine sonore (spesso manovrate con una evidente inesperienza) alla ricerca di nuovi  possibili paesaggi e nuove verità da riportare su questo terzo sasso dal sole.

Che lo si ritenga riuscito o meno, l'esperimento di Von Deyen (il secondo per la Sky di Gunter Korber) permette di tornare a ripensare a quella stagione, a rivalutarne pregi e limiti, soprattutto nella netta percezione di "quanto poco" bastasse per evocare spazi e distanze prima dell'avvento della moderna riduzione di tempo e distanze generata dalle nuove tecnologie (e dal nuovo behaviour globale).

DIETER MOEBIUS, CONNY PLANK, MANI NEUMAIER - Zero Set (1983)






















... e dopo succede anche che a distanza di anni si scopre che molto di quanto emerso grazie alla genialità di qualcuno fosse in realtà frutto di "altre semine".
Un'eventualità questa che nella musica accade spesso proprio per la natura stessa di questa meravigliosa forma d'arte che evolve il proprio linguaggio a prescindere dall'esposizione pubblica e dalla fortuna dei protagonisti coinvolti.

E' il caso di questo album prodotto dalla Sky Records nel 1983 (registrato nel 1982) ad opera di Conny Plank, Dieter Moebius e Mani Neumaier, musicisti della scena "kraut" germanica e protagonisti a differenti livelli di una scena creativa che in europa non ha avuto pari, seconda solo ad Albione, vera ed inaccessibile patria della musica di fine secolo scorso.

"Zero Set" è uno straordinario spaccato della musica elettro-pop made in deutschland contaminata da influenze soniche provenienti da tutto il globo terrestre con un sound originale e capace di competere ampiamente con le divagazioni più colte (o ritenute tali) di paladini riconosciuti della contaminazione sonora quali Brian Eno e David Byrne.

Un disco tra i migliori prodotti dall'etichetta dell'ex Brain/Metronome Gunter Korber, una label che pur nella sua ingenuità fondo ha saputo documentare una visione entusiastica di una scena musicale innamorata di sé stessa tanto quanto impegnata a trovare una via alternativa al business discografico imperante d'Inghilterra.