giovedì 28 gennaio 2010

FRANK ZAPPA - Philly '76 (2009)



In qualche modo era il disco che ci voleva.

In una sorprendente qualità sonora ecco rimaterializzarsi il fantasma (sic!) dell'omino baffi-e-mosca direttamente dal lontanissimo 1976.

Per un vecchio appassionato esperto, la notevole qualità artistica di alcune delle date del '76 tour era già nota grazie alle numerose registrazioni clandestine disponibili dappertutto, ma risentirne una in versione perfetta, dinamica e meravigliosamente editata ... è stato un problema di contraccolpo emotivo che ha aumentato il sincero rammarico che il responsabile di quelle audio meraviglie non sia più da queste parti.

Premesso quanto sopra, credo sia necessario segnalare a tutti gli amanti dello strumento a quattro corde per eccellenza che la performance di tale Patrick O'Hearn qui documentata ha del sovrannaturale, ed è probabilmente la volta in cui il talento del giovane californiano diventa apprezzabile a-tutto-tondo davvero (per capirci ZINY sembra un "normale" lavoro rispetto a quanto proposto in questo particolare concerto ... you know what i mean).

Stesso discorso vale per Terry Bozzio e la sua travolgente batteria assolutamente incontenibile nella sua "zona Franka" (lo so, è un acrobatico "cheap wordgame" ma ... hey!) che il leader evidentemente gli ha sempre giustamente concesso.

Diventa invece anche estremamente interessante apprezzare il lavoro per nulla marginale dell'unico inglese della band, di quel tale Eddie Jobson che in quella breve stagione alle tastiere riesce a reggere il peso dei complessi arrangiamenti, prendendosi poi delle intense derive soliste con il suo celebre violino elettrico trasparente.

Ai più attenti poi risulterà anche evidente la presenza della cantante BIANCA (Odin) - a cui sono stranamente anche affidate le note di accompagnamento del disco - rimasta davvero per poche settimane, ma senza dubbio in grado di fornire un apporto perfettamente adatto a sottolineare alcune derive funky-soul (in fondo) sempre presenti in un certo Zappa.

Musicalmente parlando il concerto è uno straordinario cocktail di anticipazioni (per l'epoca, ovviamente) ed alcune curiose scelte d'archivio. Alla prima categoria fanno sicuramente riferimento "Tryin' to grow a chin", la travolgente "City of tiny lights" (con un eccellente solo/scat di Ray White) - che verranno poi pubblicate solamente tre anni dopo in "SHEIK YERBOUTY" - ma anche tutti i brani dell'album ZOOT ALLURES (curiosamente pubblicato ufficialmente worldwide PROPRIO QUEL GIORNO ovvero il 29 ottobre 1976) e quindi "Wind up working in a gas station", "The torture never stops" (con un intenso, smagante assolo del "capo"), Black Napkins e "Find her finer".
E' anche un momento di grande conflittualità dello stesso Zappa con mezzo mondo discografico americano e quindi di fatto anche tutti i brani che poi - solo due anni dopo - finiranno in ZAPPA IN NY sono da considerarsi delle vere e proprie preziose anticipazioni come "The purple lagoon" (essenzialmente l'intro), "Max needs Women", "Chrissy puked twice" (aka "Titties and beer") e "Honey don't you want a man like me?".
Alla seconda categoria invece sono riconducibili "You didn't try to call me" (evidentemente scelta per le doti vocali di Bianca) e l'intera sezione "Rudy wants to buy yez a drink", "Would you go all the way?", "Daddy daddy daddy" e "What kind of girl do you think we are?" pensata per la partecipazione al concerto di Flo & Eddie (cameo poi cancellato per l'improvvisa morte del chitarrista della band dei due ex Mothers avvenuta in circostanze misteriose solo poche ore prima).

"PHILLY 76" aggiunge anche un'inedita cover al lungo elenco di brani ri-proposti da Zappa nella sua carriera ovvero "Stranded in the Jungle" (un classico del rhythm'n'blues portato al successo da The Jayhawks e scritto da Ernestine Smith & James Johnson nel 1956). Curiosamente anche la glam-punk band dei New York Dolls aveva riproposto lo stesso brano due anni prima nel 1974 ... ma ovviamente con uno spirito vagamente differente.

In conclusione un disco che permette una specie di fruttuoso armistizio tra la moltitudine di appassionati zappiani che comincia a non capire la politica delle pubblicazioni fin qui messa in atto dalla casa "madre" (e come poteva essere definita diversamente?) Zappa Family Trust.
Grazie a questa eccellente pubblicazione, probabilmente per qualche minuto il mondo e la zappianerie internazionale si dimenticherà dello "still missing" ROXY DVD!

SOFT MACHINE - The Soft Machine turns on (1990)



L'imponente meraviglia di "Moon in June" inaugura l'ascolto di questo primo compendio dedicato alla dimensione radiofonica dei SOFT MACHINE nell'arco di tempo tra il 1969 ed il 1971.

Ed in fondo un c'è un buon motivo per inziare questa selezione proprio dalla "canzone appositamente customizzata" da Robert Wyatt ... e non è solamente quello del criterio cronologico dal momento che proprio "Moon in June" è l'unico brano anche cantato dell'intera raccolta ed è di fatto il testamento musicale che l'altrimenti inquieto batterista di Bristol ha poi definitivamente lasciato ad imperituro ricordo tra le passate pieghe di un suono sempre più in evoluzione strumentale, significativa svolta intrapresa con sempre più convinzione dal gruppo che lui stesso aveva contribuito a fondare.

La voglia di grande massa sonora (forse anche dettata dal desiderio di "collettivizzare" l'esperienza musicale tra giovani aspiranti musicisti emergenti) spinge il gruppo ad integrare il proprio essenziale line-up con un ambizioso quartetto di fiati formato dal già precedentemente "arruolato" Elton Dean oltre ai tre giovani talenti Lyn Dobson, Marc Charig e Nick Evans.

Il risultato che emerge immediatamente da queste registrazioni è davvero la dedizione alla scrittura collettiva che il gruppo stava portando avanti in piena coerenza con certe ultra-big band quasi contemporanee (vedi ad esempio il progetto "Centipede").

Ovviamente le qualità dei singoli muscisti componenti la band viene messa comunque in grandissima evidenza (inutile dire che il basso di Hopper e la tastiera di Ratledge non siano semplicemente clamorosi) e la sensazione che SOFT MACHINE come band sia la punta di diamante di una "nuova musica intelligente" giovanile è assolutamente innegabile.

Semmai è altresì curioso pensare che queste stesse registrazioni, altre alla radio-diffusione del momento, abbiano dovuto attendere fino al 1977 per essere apprezzate solo parzialmente su un supporto replicabile (l'album era il leggendario visionario ed immaginifico antologico triplo vinile "Triple Echo"), e addirittura attendere fino alla edizione su cd (a cui mi riferisco) datata 1990 (ad opera dell'indipendente Strange Fruit).

Ovvero ... per fortuna adesso abbiamo recuperato quasi tutti i tasselli di quel percorso artistico in atto, ma a ben pensare la "macchina morbida" era realmente in azione ad una differente velocità dal resto dei contemporanei. Magari QUEL PARTICOLARE MOMENTO di assoluta eccellenza non sarebbe durato poi molto perchè già il "Fourth" benchè pregevole non è più figlio della stessa intenzione comune (e poco dopo anche la pubblicazione di "Fifth" sancirà la definitiva direzione).


SOFT MACHINE - Spaced (1969)



Alla fine degli anni '60 essere parte emergente di una cultura musicale proiettata verso nuove frontiere espressive prevedeva anche degli "obblighi".

SPACED è di fatto un'operazione quasi obbligata - appunto - per i Soft Machine visto il ruolo "progressivo" che la loro musica andava guadagnando nell'ambiente artistico contemporaneo. Con ogni probabilità quanto registrato nelle fatiscenti strutture abbandonate sulle rive del Tamigi in quei giorni - e adesso miracolosamente resuscitato grazie alle moderne tecnologie - non sarebbe stato nemmeno lontanamente messo in produzione dal gruppo ormai impegnato nell'evolvere sempre di più il proprio sistema compositivo mescolando acrobaticamente rock e jazz conditi di minimalismo e suggestioni "aliene". Per cui questa volta bisogna "ringraziare" il sistema per aver forzato loro la mano, per aver dato ai tre ragazzotti inglesi un "compitino" sonoro da svolgere, ovvero produrre una determinata quantità di musica sperimentale per accompagnare SPACED, spettacolo multimediale dell'eccentrico artista londinese Peter Dockley in cartellone al Roundhouse della capitale britannica.

Quello che oggi abbiamo la possibilità di ascoltare è una versione abbondantemente "riveduta e corretta" (soprattutto nelle durate e nella scaletta) di quanto registrato con mezzi di fortuna da Bob Woolford, ma rappresenta uno degli episodi creativi più interessanti in assoluto della produzione musicale giovanile dell'epoca.

Le sette sezioni in cui il materiale è stato suddiviso per comodità d'ascolto, dimostrano con grande efficacia quanto forte fosse la voglia di superare certi confini del linguaggio musicale di allora (non dimentichiamoci che quello è anche l'anno di "Abbey Road" dei Fab Four!) e di quanta contaminazione intellettuale fosse presente nella nuova generazione di musicisti che si andava "progressiva-mente" allargando.

Vicino per certi versi a quello che poi sarà musicalmente presente (parzialmente) in "Third", il materiale contenuto in questa raccolta si presenta come una serie di "flussi creativi" sviluppati nella claustrofobica condizione del minimalismo formale, ma allo stesso tempo espansi alla massima possibilità caleidoscopiche dei timbri naturali (ma soprattutto NON NATURALI) della strumentazione usata.

Ed a proposito di cose "alterate", la moderna tecnologia ci permette adesso di scoprire la meravigliosa melodia nascosta nel "reversed" tape che costituisce l'intero brano conclusivo "Spaced Seven" ... invertendo il procedimento digitale la malinconica canzone sconosciuta prende forma da uno sgangherato Wurlitzer ... un gioiello estemporaneo nascosto ma davvero struggente.

Forse per alcuni è addirittura facile ritenere un disco come questo un semplice "narcisistico outing autocompiaciuto" che probabilmente non meritava nemmeno di essere diffuso pubblicamente perchè nato di per sé stesso senza una volontà realmente "artistica" del gruppo, invece - a leggere con attenzione tra la massa informe dei suoni che lo compongono - SPACED è di fatto una delle più lucide istantanee di un behaviour artistico che ha realmente costituito la base principale per l'emancipazione della musica (e di conseguenza dell'ascoltatore) dalle leggi di mercato dell'intrattenimento, portando all'estrema sintesi la volontà di CAMBIARE il concetto stesso di musica portandola ad indispensabile CIBO per il pensiero.


mercoledì 27 gennaio 2010

SOFT MACHINE - Grides (1970)



L'autunno del 1970 vede i Soft Machine in stabile quartetto, quello definibile forse "classico" per la svolta jazz del gruppo.

Lasciate le efficaci sperimentazioni con il line-up aumentato da più strumenti a fiato, Wyatt, Ratledge Hopper e Dean danno il via alle "danze" della definitiva consacrazione del jazz progressivo. Hanno già registrato la parte in studio che avrebbe completato la produzione del terzo album (lo storico "Third" appunto) ma sono nuovamente in tour, per mantenere viva la forza creativa del collettivo.

Grides contiene un concerto registrato il 25 ottobre del 1970 al ben noto Concertgebouw di Amsterdam, ma la nota peculiare di questa documentazione ovviamente postuma sta nel riscontrare un certo maggiore "ordine" ed una minore aggressività del gruppo stesso, impegnato apparentemente molto di più ad "ascoltarsi" più che non ad aggredire un pubblico. Probabilmente la consapevolezza di recitare un ruolo sempre più fondante nella nuova scena rock inglese ibridata con il jazz europeo suggerisce inconsciamente ai musicisti un maggior controllo sostanziale nella performance. Ciò non significa assolutamente perdita di estro e creatività, quanto piuttosto una evidente manifestazione di perfetto meccanismo simbiotico tra le quattro menti che finalmente trovano un terreno comune nella dimensione live (cosa che non sempre lo studio aveva saputo mantenere ... vedansi i problemi con la "Moon in June" di Wyatt ed il suo leggendario "fai da te" proprio del "Third" e/o nelle sessioni alla BBC documentate prima in "Triple Echo" e poi, successivamente in "Soft Machine turns on / The Peel sessions").

Questa minor dose di "cattiveria performantica" suggerisce un ascolto più rilassato per apprezzare il grado di maturità e di interplay raggiunto tra i quattro (soprattutto tra Hopper e Wyatt) ed il senso estetico formale del linguaggio in divenire prende il sopravvento sulla carica animale di solo qualche mese prima.


SOFT MACHINE - Breda Reactor (1970)



Nell'interminabile (per fortuna) elenco di pubblicazioni postume della macchina morbida, ha un suo peso questa registrazione del 31 gennaio 1970 che, nonostante sia di qualità non proprio eccelsa, permette di approfondire ulteriormente la potenza creativa di quel particolare momento nella scena di un behaviour rock "contaminato" da un approccio decisamente jazz.

Stesso line up (ovviamente) di quello che nel 2000 verrà proposto nel cd "Noisette", ma la carica sonora del gruppo si rivela di gran lunga più selvaggia e violenta in questo set (registrato a Breda in Olanda peraltro solamente quattro giorni prima).

Indubbiamente il suono più grezzo aiuta probabilmente ad "incattivire" maggiormente il "sound" generale del gruppo, ma sembra evidente però una certa quale maggiore determinazione ad una sorta di aggressione sonora nei confronti del pubblico messa in atto dal quintetto.

Il basso distorto di Hopper si fa penetrante ed implacabile nel sorreggere con un suono muscolare ogni evoluzione degli altri, capace comunque di sospendersi a volte magicamente con quel suono dolce, statico e rotondo come una sfera perfettamente levigata appoggiata ad un piano altrettanto perfettamente in bolla. Anche il flauto di Lyn Dobson sembra più "cattivo" e presente nell'economia generale della peformance (e qui "Backwards" ne è l'esempio più illuminante).

Ratledge è semplicemente inarrivabile nelle lunghe cavalcata distorte dei suoi a-solo (una sorta di "Gengis Khan-like attack" ante litteram) in "Moon in June" e nella altrettanto lunga e stravolta versione di "Facelift" dove anche il flauto di Dobson si ritaglia uno spazio apparentemente quasi "anomalo", mentre del tutto inaspettata fa la sua breve comparsa tra gli audio-colori fin qui follemente amalgamati addirittura una armonica a bocca ... decisamente devastante e - ad onor del vero - devastata.

La spettrale voce anemica di Wyatt compare sporadicamente ormai dal caos elettrico ("Hibou Anemone & Bear", "Cymbalism" e la Ayersiana conclusiva "We did it again") ma è solo la traccia sbiadita di un passato dove anche l'elemento vocale raccontava delle storie ... ma evidentemente questo era il tempo delle grida e non certo dei sussurri.

SOFT MACHINE - Noisette (1970)



Quando la macchina si mette in moto, magari con un assetto decisamente "sportivo" i risultati sono davvero formidabili.

E'il 4 febbraio del 1970 quando la macchina morbida invade il salone delle fiere di Croydon. il gruppo non è più lo stesso dell'ultima fatica discografica pubblicata l'anno prima) ma vede al suo interno anche due fiatisti della nuova generazione di jazzisti d'albione quali Elton Dean e Lyn Dobson (il primo proseguirà ancora per molti anni l'esperienza nella band, con il secondo - già memorabile componente della band di Manfred Mann - il tutto si rivelerà essenzialmente una valida collaborazione artistica).

Il concerto di quella serata di febbraio dovrà attendere trent'anni per essere completamente documentato su Compact Disc (a parte un frammento della composizione "Facelift" proposto nel terzo album ufficiale del gruppo ed una quantità infinita di dischi clandestini a riguardo).

Nonostante questo incredibile lasso di tempo trascorso, il materiale proposto risulta ancora oggi assolutamente innovativo e coraggioso per l'epoca e sebbene venga posta con maggiore inequivocabile certezza l'intenzione dei muscisti coinvolti di dirigersi verso una forma di jazz elettrico sempre più potenzialmente "intro-contro-verso", la qualità della musica prodotta ha davvero dell'incredibile considerati i tempi.

In grande spolvero è la sezione ritmica (Wyatt e Hopper) come straordinario è il lavoro (sempre troppo spesso ingiustamente dimenticato) di Ratledge alle tastiere, mentre ai due fiati è "semplicemente" affidato il compito di aggiungere l'elemento più "jazzato" nel suono e nell'attitudine all'improvvisazione.

Un ascolto che prevede sicuramente attenzione e concentrazione, ma in cambio offre ancora una grande soddisfazione estetica musicale.

SOFT MACHINE - Volume 2 (1969)



Le cose si sono fatte terribilmente serie nel secondo capitolo della "macchina morbida" e la transizione verso una forma molto più complessa (ma nello stesso tempo autocompiaciuta) dimensione sonora è assolutamente evidente.

Come è immediatamente evidente che la quantità di energia creativa presente nei componenti la band sia debordante ed incontenibile, sospinta da una trance artistica destinata a trasportarli verso acrobatiche ibridazioni sonore di sicuro effetto nell'ascoltatore alla ricerca del "nuovo" e "progressivo" linguaggio giovanile proteso verso una prodigiosa emancipazione intellettuale dalle generazioni precedenti.

E meno male che il flusso creativo della macchina non si ferma nemmeno per un minuto proponendo questo Volume 2 come una insuperata esperienza d'ascolto totale, capace di muovere il cervello in una piacevolissima danza d'attenzione e concentrazione.

SOFT MACHINE - The Soft Machine (1968)



A distanza di 32 anni non ho ancora capito in che cosa davvero consista lo straordinario fascino dei primi Soft Machine.

E attenzione, non parlo della deriva jazz progressiva che meritoriamente ha visto il gruppo rappresentare una specie di intelligente perversa fusione di linguaggi differenti tra loro come il jazz, il soul ed il rock. Mi riferisco essenzialmente a quella forma di "psichedelia mutante" che permette ad uno dei più improbabili tra i "power trio" dell'epoca (basso batteria e tastiere) di raccontare storie di laterale esistenza e behaviour in canzoncine dalle melodie apparentemente fragili e lineari sorrette da un potente impianto musicale progressivo "deviato" dalle distorsioni e dalle "mutazioni elettromagnetiche" di strumenti filtrati e manipolati fino all'esasperazione.

Qualunque sia il giudizio artistico, non si può non apprezzare la volontà di andare "oltre", di sperimentare per quanto possibile ogni forma di interazione musicale tra strumenti, personalità e sensibilità dei singoli musicisti coinvolti, uniti verso l'unico obiettivo di spostare i confini del "possibile" nello scenario sonoro (e non solo quello) in ebollizione della gioventù musicale della fine degli anni sessanta.

Suggerire di ascoltare ADESSO i Soft Machine alle generazioni giovani è (per mutuare una citazione da un ben noto "altrove") COSA BUONA E GIUSTA, soprattutto perchè potrebbe essere l'unica speranza per ricordare che per raggiungere nuove frontiere dell'arte bisogna avere anche il coraggio di ricercare nuove soluzioni, cavalcare nuove idee e non avere paura della claustrofobia delle terribili "nicchie" in cui si rischia (anzi si ha le certezza) di essere collocati da generazioni distratte e scarsamente inclini a stimolare le emozioni individuali, preferendo una cultura massificata ed uniformata.

In fondo (ancora metaforicamente) SOFT MACHINE è una pietra, e su quella pietra ...