domenica 24 novembre 2019

MASSIMO GIUNTOLI & ELOISA MANERA (HOBO) - "Edmund" (2019)

























Era da qualche settimana che aspettavo il momento giusto per ascoltare queso ultimo lavoro di Massimo Giuntoli qui impegnato nel progetto HOBO in valida compagnia di Eloisa Manera.
Si, perchè ci vuole il "momento giusto" per apprezzare appieno la prepotente carica creativa trasversale di Giuntoli, musicisti tra i più originali ed intelligenti di un panorama nazionale spesso scarsamente osservato in patria.

La versatilità creativa di Giuntoli lo porta a cambiare spesso il "format" della proposta artistica ed in questo caso siamo di fronte ad una riuscitissima interazione (ed integrazione) tra harmonium, flauto dolce glockenspiel e violino, in una dimensione acustica straordinariamente riuscita tanto nelle parti più "astratte" quanto nelle composizioni più rigorose.

E' una dimensione sonora confortevole all'ascolto e particolarmente raffinata nel miscelarsi delle voci protagoniste molto ben calibrate nel proprio ruolo di "parte del tutto".

L'atmosfera creata con questa combinazione non può non riportarci ad una coinvolgente dimostrazione del valore del suono acustico, una tradizione sonora troppo spesso dimenticata in rutilanti ere tecnologicamente condizionanti.

E' un assoluto piacere apprezzare un uso creativo di suoni che sembrano venire da un'altra realtà (per fortuna davvero esistente) evocata attraverso un linguaggio musicale attento e particolarmente ben amalgamato.

Un disco, ma soprattutto, un compositore che meriterebbero una più attenta considerazione da parte di un pubblico che sicuramente esiste e che sarebbe in grado di apprezzare l'essenziale intelligenza nascosta tra i numeri digitali di questo cd... se solo ne venisse esposto con una adeguata frequenza.

E allora, visto che questa frequenza viene negata dall'appiattimento artistico globalizzato (e funzionale solo alla dimensione economica) invito modestamente tutti a compiere l'atto rivoluzionario di acquistarne documentazione, per sostenere concretamente anche chi ha il coraggio e la costanza di pensare ancora ad una musica capace di viaggiare nel tempo e verso un tempo nuovo ... unica speranza per lasciarsi alle spalle il vuoto del mero intrattenimento comandato e coatto.

www.massimogiuntoli.com

venerdì 8 novembre 2019

La mia ritrovata passione per Steve


... non ho idea se si tratti di un tipico caso di nostalgia senile (o quasi), ma non nascondo il fatto che molto spesso (molto più di quanto in effetti lo notifichi in questo spazio social) accompagno la fine del giorno con la visione di uno dei numerosi DVD live che documentano il percorso di riproposizione dei classici dei Genesis ad opera di Steve Hackett ... ed è una cosa piuttosto strana dato che fino a due anni fa avevo letteralmente snobbato l'operazione "revisited" iniziata dal chitarrista londinese già nel lontano 1996. In effetti quell'album mi aveva provocato una discreta "orticaria d'ascolto" per le scelte di arrangiamento e rielaborazione - anche troppo azzardate - dei classici della (per me) leggendaria band della Charterhouse.

Il caso ha però voluto che, in un inaspettato impeto di curiosità, decidessi di acquistare il CD/DVD della sua performance all'Hammersmith Apollo in Londra della primavera del 2013 e dal quel momento in avanti non ho più smesso di seguire le sue uscite discografiche (spesso poi solo parzialmente) antologiche dedicate al repertorio dell'epopea progressiva dei Genesis. In effetti non ho mai avuto una grande passione per la sua produzione solista fatta eccezione per "Voyage of the acolyte" (1975), "Please don't touch" (1978), "Sketches of Satie (del 200 con il fratello John) e - più recentemente - "Wild orchids" (2006) ... e non mi hanno scaldato il cuore nemmeno le operazioni in compagnia di altri grandi della stagione d'oro ("The Tokyo tapes" con John Wetton e Ian McDonald). Invece questa nostalgica passione per il suo modo così educato (a volte quasi impacciato) di proporre quelle pagine fondamentali per il mio ascolto post-adolescenziale (ed oltre) è esplosa definitivamente con quell'album/DVD del 2013 portandomi a riflettere a lungo sul valore delle riproposte antologiche ad opera di protagonisti delle produzioni originali. Il dibattito sulla effettiva  opportunità di creare intorno a se una "coverband di se stesso" lascia aperte molte perplessità e critiche spesso non del tutto immotivate. Ma nel caso in specie, Hackett ha ricostruito parte di quel clamoroso repertorio (snobbato dagli altri componenti della band, impegnati evidentemente a perseguire creatività - Gabriel - e business - gli altri tre) elaborando strategie di eprformance estremamente raffinate ed intelligenti. Tra esse la prima e più evidente è l'utilizzo geniale del sax soprano di Rob Townsend (eccellente polistrumentista) a contrappunto del suono della sua tipica chitarra (peraltro enormemente più consolidato e preciso degli anni precedenti). Anche la scelta del cantante a cui affidare la delicata ed ingombrante riproposizione del ruolo di Peter Gabriel si è rivelata clamorosamente azzeccata con la prorompente statuaria figura dello svedese (ma americano di nascita) Hugh Eric Stewart aka Nad Sylvan, il cui timbro vocale, pur avvicinandosi spesso all'inflessione originale gabrieliana, è andato via via evolvendosi fino all'ultima eccellente dimensione interpretativa offerta dal più recente album con la Heart Of England Orchestra registrato alla Royal Festival Hall. Anche la scelta di affiancargli spesso altri vocalist d'eccezione ospitati nelle varie occasioni (dall'immortale John Wetton a Jakko Jakszyk, Nick Kershaw, Steve Rothery, Amanda Lehmann e Steven Wilson) in grado di offrire nuove "sfumature" a grandi classici del repertorio Genesis.

A queste scelte sicuramente intelligenti che mostrano palesemente una grande sensibilità artistica, non possono non affiancarsi anche la preziosissima collaborazione al progetto di altri maiuscoli interpreti/interlocutori quali Roger King alle tastiere, Gary O'Toole alla batteria e alla voce oltre che i differenti bassisti che si sono alternati negli anni, da Lee Pomeroy a Jonas Reingold passando per Nick Beggs ovviamente.

Questa mia rinata passione per Hackett mi ha anche portato ad assistere ad un suo concerto del suo Tour de Force del 2018 e ne sono uscito ancor più convinto della bontà del suo lavoro e della sua quasi imbarazzante semplicità d'approccio quasi cabarettistica con il pubblico presente (leggendaria la sua introduzione al concerto della Royal Albert Hall qualche anno fa: "... benvenuti al Royal Albert Pub!!!").


Ora, all'ascolto di questo ultimo prodotto di rielaborazione, mi sono posto con uno spirito critico particolarmente appuntito perchè la presenza dell'orchestra in contesti "progressivi" ha spesso rappresentato una addizionale ed indigesta melassa sonora, capace di enfatizzare a dismisura solo la retorica di alcuni passaggi compositivi di quella particolarissima generazione di musicisti degli anni settanta. In questo caso invece mi sono ampiamente ricreduto e le orchestrazioni sono particolarmente discrete ed amalgamate al resto del suono del gruppo (tranne forse in uno o due momenti quasi incomprensibili per scelta). Un connubio ampiamente riuscito quindi che rinnova la sensazione di quanto incredibili fossero state quelle pagine scritte da musicisti poco più che ventenni con nessuna certezza di raggiungere una notorietà ed una stabilità commerciale futura, alimentati dalla sola voglia di creare "nuove combinazioni creative" e sostenuti da generazioni di ascoltatori/spettatori avidi di curiosità e partecipi protagonisti dell'importante testimonianza creativa dei tempi.

Mi è anche subito tornata in mente l'occasione nel 2015 in cui Hackett aveva già provato ad interagire come ospite (ma con suo repertorio) con la band islandese Todmobile e dove forse la prepotente voce del cantante Eyþór Ingi Gunnlaugsson (prodotto di un "talent" televisivo islandese) aveva messo in discussione il registro interpretativo scelto da Sylvan, ma a ben vedere la strabordante interpretazione del ragazzo dal nome impronunciabile altro non ha fatto se non mettere ancora più in luce l'algida e raffinata scelta dello svedese americano ... probabilmente è stato un bene poter apprezzare due performer così diversi alle prese con uno stesso delicato repertorio.
E lo stesso discorso può essere fatto anche per le due Orchestre a confronto, più esuberante e prepotente l'orchestra islandese Sinfonia Nord & Chorus e più misurata e discreta la Heart Of England Orchestra, capace di restare all'ombra della band sul palco.

Tornando al DVD della Royal Festival Hall ... dato per superato l'esame "orchestrale" non posso esimermi dal segnalare la mostruosa evoluzione interpretativa di Nad Sylvan che finalmente rende sue (per quanto possibile, ovviamente) tutte le pagine che furono di Gabriel e Collins, imponendo nuove preziose sfumature vocali dove le caratteristiche dei due sopracitati non sarebbero mai andati a parare ... e mi spingo a dire che alcune delle interpretazioni di Sylvan adesso possono ampiamente competere (ed inqualche caso addirittura superare) con le suggestioni originali, aggiungendo nuova modernità e raffinatezza a contesti considerati forse ingustamente intoccabili.

Un unica considerazione finale la vorrei dedicare al repertorio "originale" di Hackett che mai come in questo ultimo caso perde il confronto con le "antiche gesta" ... il suo peculiare stile lo porta ad essere tra i più confusi e scomposti, a cavallo tra banalità tematiche davvero insostenibili e scelte spigolose talmente coraggiose da risultare anche esse incomprensibili. Ma è nella sua apparentemente innocente naturalezza che Hackett mi costringe a perdonarlo ... la sua ombrosa simpatia me lo rende quasi familiare e non posso non continuare ad ascoltare/vedere le sue soniche gesta sul palco attraverso le sue periodiche pubblicazioni.

Bravo Steve ... e bravi tutti !!!

martedì 5 novembre 2019

1979-2019 - The men who make the music (e non solo quella)

... a distanza di 40 anni è ancora complicato ricostruire il clamoroso debutto multimediale della band di Akron, quel mini-film concepito, scritto e fortemente voluto da Gerry Casale e Mark Mothersbaugh nel 1979 ed affidato alla regia di Chuck Statler.
Il "film" in realtà non vide mai la luce nella sua forma integrale e la copia che girò nei primi anni ottanta come "definitiva" in realtà tralasciava alcuni episodi girati ma mai definitivamente inclusi.

In effetti, non esiste una vera e propria versione definitiva e completa di questo magistrale guazzabuglio di idee rivoluzionarie, ma solamente una serie di edizioni che tra loro contengono spezzoni ed elementi omessi da tutte le altre ... la mia quarantennale DEVOzione mi ha spinto a cercare di rimettere in ordine quanto prodotto in quel 1979 per quel mini-film originariamente intitolato "DEVO Vision" ma poi ribattezzato "THE MEN WHO MAKE THE MUSIC" ma conosciuto anche come "THE TRUTH ABOUT THE DE-EVOLUTION".

E' interessante notare come il primissimo progetto originale fosse stato concepito PRIMA del grande successo internazionale ed in effetti nella versione iniziale non esistevano i personaggi collaterali quali Daddy Knowitall, Rod Rooter e Penny non erano stati nemmeno concepiti nella trama. Al loro posto erano state usate delle riprese amatoriali di alcuni concerti della band prodotti da Marina Yakubic (fidanzata con Mark all'epoca).





Sequenze presenti nella versione pubblicata nel 1981:

* Opening (late Booji Boy & General Boy)
"Have you got the papers that Chinamen gave you?"
* General Boy speech
* MECHANICAL MAN (solo intro)
* JOKO HOMO (videoclip)
* General Boy speech
* WIGGLY WORLD (live)
* General Boy speech
* THE DAY MY BABY GAVE ME A SURPRISE (videoclip)
* Roll out the barrell (aka Rod Rooter Big Reamer)
including
- Daddy Knowitall calls Rod Rooter
(background music: "SMOZART" by Mark Mothersbaugh)
- Rod Rooter calls Devo
- Big Entertainment: Penny's job
- Devo (no Alan) meet Rod Rooter
- Devo with Alan spyed at Club Devo
* PRAYING HANDS (live)
* General Boy speech
* UNCONTROLLABLE URGE (live)
* SATISFACTION (videoclip)
* General Boy speech
* JOCKO HOMO (live)
* SECRET AGENT MAN (demo)
* Devo speech
* SMART PATROL (live)
* MR DNA (Live)
* Devo speech
* General Boy speech
* COME BACK JONEE (videoclip)
* General Boy final speech
* (THE WORDS GET) STRUCK IN MY THROAT (finale) feat. Booji Boy
* RED EYE feat. Booji Boy
* Devo final credits
* DEVO CORPORATE ANTHEM

regia di Chuck Statler
con
Mark Mothersbaugh
Gerald V. Casale
Robert "Bob1" Mothersbaugh
Robert "Bob2" Casale
Alan Myers
Michael Swartz (Rod Rooter)
Robert Mothersbaugh Sr. (General Boy)

Nel 2000 la Rhino Records scrittura il gruppo e annuncia la pubblicazione di un DVD intitolato "THE COMPLETE TRUTH ABOUT THE DE-EVOLUTION (Unexpurgated)" che vedrà la luce solo tre anni dopo.
Il titolo ed il contenuto di questa edizione risulta però onestamente fuorviante per chi avesse sperato di trovare finalmente in un unico supporto l'integrale girato dell'epoca. Infatti,  il materiale del film originale, pur beneficiando della qualità della elaborazione digitale (ma attenzione ... molto "relativa" comunque già in partenza), in realtà è un non-generoso estratto dal film completo.
Nonostante questo aspetto negativo, l'appassionato DEVOto può sicuramente perdonare questa mutilazione del film originale perchè a "compensazione" vengono per la prima volta pubblicati alcuni gustosi spezzoni inediti che documentano l'incontro tra Rod Rooter e la sorella (Daughter Donut che probabilmente faceva parte di una ulteriore estensione della trama e della sceneggiatura) e soprattutto il finale originariamente previsto" con l'emblematico "smascheramente e sacrificio" di Booji-Boy commentato da una incredibile "Because" beatlesiana letteralmente demolita e sonicamente calpestata da suoni elettronici scarsamente codificabili ad un primo ascolto.
Nella stessa edizione del 2003 sono presenti diversi bonus tra cui il più significativo (per la relazione con il progetto originale) è quello che documenta un ulteriore "sacrificio" di Booji Boy (decisamente molto più cruento) che ricordavo di aver visto proiettato sul palco in conclusione del concerto nel tour del 1980 di "Freedom of choice", ma di interesse è anche lo spin-off del 1982 con un'introduzione al video di "Through Being Cool" (mai davvero utilizzata nei tempi contigentati dei canali di video-musica) che vede protagonista nuovamente Rod Rooter e la partecipazione stupefacente - e straordinaria - di Timothy Leary nei panni di Doctor Bruthfood)

Nel 2014 la MVD ha nuovamente pubblicato questo progetto, integrandone il contenuto con un intero concerto del 1996 al Sundance Film Festival. Nel tentativo di migliorare la "scarsa" qualità del video originale, la postproduzione di questa edizione risulta sicuramente più nitida, ma un po' meno convincente nei contrasti colore.Ma soprattutto questa ultima edizione è priva di tutti i bonus presenti in quella della Rhino.

Comunque sia andata ... uno di documenti che (per me) hanno segnato profondamente un'epoca di presa di coscienza e consapevolezza della molteplicità dell'arte pop contemporanea ... e ancora oggi, quando lo guardo ne apprezzo la carica creativa e rivoluzionariamente de-evoluta.


lunedì 15 luglio 2019

ENNO VELTHUYS - "Ontmoeting" (1982)

















... gli anni ottanta hanno avuto i loro "eroi inconsapevoli", dimenticati e non celebrati, cancellati e non posti in risalto nel libro della sonica scuola di quella ingrata decade musicale, così potenzialmente esplosiva nella nuova indipendenza tecnologica e produttiva ma altrettanto incline ad alienare dal mondo circostante quanto "non-allineato" con la tendenza dominante (perchè la musica e la sua grande organizzazione alle spalle ha sempre bisogno di "agenti dominanti" per mantenere inalterato il potere di pervasione che garantisce l'affare economico per tutti i protagonisti della scena.

Enno Velthuis, olandese di Den Haag e con esperienze musicali come bassista/chitarrista nella scena pop nazionale già alla fine degli anni sessanta, è sicuramente tra gli eroi banditi dalla memoria musicale europea perchè troppo poco incline ad una disponibilità commerciale con compromessi ed accordi legali quanto invece spirito libero (anche nel suo stesso percorso di autodistruzione).

Grazie al circuito ultra-sotterraneo indipendente dei primi anni ottanta, Enno vide pubblicate in copie limitatissime alcune sue cassette totalmente autoprodotte nella sua camera della casa dove viveva con la madre. Le etichette "Exart"  e  "Kubus" - specializzate in audio-cassette -  pubblicarono sei nastri tra il 1982 ed 1987, sei perfetti "messaggi nella bottiglia" alla ricerca - se non di aiuto - almeno di notificare la propria esistenza nel mondo dei suoni (e che suoni!). Senza particolari riferimenti al mondo musicale passato e (allora) presente Enno si muove tra emozioni e gusti talmente personali ed uniche da sembrare tra loro senza un reale nesso concettuale. Invece ascoltandole con maggiore attenzione si scopre un percorso nascosto, una direzione tracciata - sebbene a fatica - verso la "poesia del suono" evocata con voce elettronica quasi completamente scollegata dalla quasi arrogante evoluzione tecnologica propria di quei giorni, con la semplicità e l'orgoglio (e forse la rassegnazione) della dimensione DIY (Do It Yourself /Fai Da Te) come unica fonte di non-confronto con il mondo d'intorno.

I nastri di Velthuys vennero distribuiti adeguatamente nei canali ultra indipendenti degli appassionati di musica borderline e grazie a questa piccola, piccolissima notorietà questo fattore fu motivo per l'autore di continuare a produrne (anche se molte, moltissime - purtroppo TROPPE - solo per la sua propria collezione privata) per continuare a mantenere l'attenzione sulla sua condizione artistica (ed umana).

Quando poi lui stesso si rese conto che quello stesso canale di diffusione dei suoi lavori era diventato esso stesso "mercato senza regole" (pubblicazioni non concordate, senza alcun diritto garantiti, senza nemmeno una tutela della - già scarsa - qualità audio della riproduzione su cassetta) fu una profonda delusione che lo fece sprofondare in una condizione di forte depressione che presto lo portò ad una vera e propria dimensione patologica che andò ad aggravare la sua condizione mentale già scarsamente stabile a causa della sua esperienza autodistruttiva con LSD a fine degli anni sessanta e per gran parte della decade successiva.

Trascorse gli ultimi anni della sua vita registrando per pochi amici alcuni frammenti di musiche destinate ad accompagnare reading di poesie o occasionali serate di storytelling. Morì di cancro nel 2009, ma solo dopo una lunga degenza in un ospedale per malati mentali.

Oggi, ascoltare "Ontmoeting" - e più in generale la sua musica - è come riuscire ad intravvedere uno spettro ... uno dei tanti "spettri invisibili" dell'immenso mondo dei suoni, proprio come davanti ad uno stereogramma ed improvvisamente se ne scopre il contenuto ... un volto senza connotati (perchè non ci restano molte immagini reali e significative di Enno) e malinconicamente imprigionato in un oblio non meritato (ma forse chissà, cercato).



mercoledì 10 luglio 2019

TURN ON ... TUNE IN ... DROP OUT (Verona 2019)



TURN ON ... TUNE IN ... DROP OUT

... quanto tempo ci vuole per metabolizzare correttamente un concerto completo dei King Crimson versione 2019?

Difficile a dirsi.

Riuscire a smaltire la magia della serata in sè e per sè è faccenda che dipende dal numero di emozioni che si sono accumulate nello stargate (in questo caso in Arena a Verona) aperto da questi sette (dis)umani appartenenti alla artistica categoria dei "musicisti" ed intrattenitori ("my lords and ladies ... for your entertainment" come ricordava il buon vecchio esperto in salmoni Ian Anderson qualche decennio fa).

Ma il viaggio di lunedì sera è iniziato già a partire dall'opening tape che quest'anno è di gran lunga diverso dai precedenti ... evidentemente e palesemente ironico e meno serioso di quello tratto dalle sessioni di Islands che apriva i tour precedenti. Qui infatti ci sono echi di conversazioni recenti, di auguri di compleanno e un selezione casuale (?) di bizzarri rumori preparatori ... senza nessuna istruzione  d'arrangiamento per oboe o archi.
Rimane la scansione del beat "one ... two ... three ... two ... two ... three" di Mr. Fripp (che fu di riferimento per gli orchestrali impegnati a registrare il preludio di "Song of the gulls" ai Command Studios di Piccadilly nel lontano 1971) ma altro non è che il segnale per le tre batterie in prima linea sul palco di "iniziare le danze" con la rigorosa e colta tribalità delle 4 sequenze poliritmiche di "The Hell Hounds Of Krim" (spesso indicata nelle recenti tracklists dei concerti con la più breve denominazione di "Drumsons").

E' ovviamente solo l'aperitivo preparatorio per "Pictures of a city" che ormai è presente abbastanza spesso (direi ...) nelle scalette dei concerti (già a partire dal 2014) e che sembra avere un posto speciale nel cuore dei Crimsoniani di prima era ... un brano che all'epoca ebbe a competere con il fulminante inizio del primo album, quell'insuperabile scarica adrenalinica data da "21st Century Schizoid Man" che diede fuoco alle polveri di uno degli album più rivoluzionari della storia musicale del secolo scorso e che era davvero difficilmente raggiungibile per intensità solo qualche mese dopo, nel 1970. Però, a ben guardare, POAC ha una sua intrinseca solidità che probabilmente è il motivo stesso per cui è stata riscoperta e riproposta così tanto spesso in questo lustro con la formazione a sette/otto teste (a seconda). La versione di questo millennio è forte, muscolare, aggressiva ed anche in questa performance a Verona _(come lo è stato anche nelle precedenti occasioni, peraltro) aggredisce letteralmente il pubblico presente. Peccato per la sbavatura iniziale - attribuibile al fonico principale - per non aver aperto il microfono di Jakko in tempo per ascoltare le prime note della parte cantata ... una distrazione chissà dettata da quale preoccupazione contingente (pazienza, succede). Fripp aggredisce il pubblico con un primo assolo feroce (ma non sarà la prima volta in questa serata in Arena) per dare poi spazio alla voce inconfondibile del sax alto dell'intramontabile Mel Collins che tra mezze citazioni, snorks e fraseggi crea una dimensione solistica parallela che permette nuovamente a Fripp di riproporre le sue laceranti sequenze d'accordi, uniche ed inconfondibili.

Una serie clusters di pianoforte di Jeremy Stacey introduce uno dei pochi brani del repertorio contemporaneo di corte "Suitable Grounds For The Blues" ... una "bluesy song" scritta a due mani da Jakko e Fripp con un evidente ricercato DNA crimsonikco (a me personalmente piace molto, ma comprendo le riserve dei crimsoniani più integralisti). Difficile comprendere in questo caso il finale dissonante di Fripp che sembra quasi essere "andato lungo" rispetto alla band, ma l'effetto è molto "Crimson" comunque, diverso dall'efficace rauco wha wha che concludeva ed evaporava misterioso nell'originale versione (per me) di riferimento contenuta in "Radical Action To Unseat The Hold Of Monkey Mind (disco 2)" del 2016.

Salto quantico di cinquant'anni con la successiva "Epitaph" ... chi mai avrebbe detto fino a dieci anni fa che sarebbe stata risuonata live davanti ad un qualsiasi pubblico con l'ufficialità della corte completa? Naturalmente questa considerazione vale per quasi tutti i brani del recente repertorio proposto da questi KC ed è ogni volta motivo di profonda riflessione per me che li ho seguiti in tutte le loro stagioni peripezie ed avventure sonore. Sono sempre emozioni difficili da contenere forse perchè appartengono ad una generazione d'ascolto che era ingenuamente più incline a "credere" e "cedere" alle emozioni di una musica così "vicina" al proprio sentire post-adolescente (ed oltre). Collins manifesta (come ultimamente è solito fare quasi ad ogni concerto) la sua soddisfazione per essere riuscito ad eseguire l'ultima nota acuta di soprano nel tema d'interludio e pre-finale ... forse un gesto scaramantico e propiziatorio per la successiva serata (ma Collins è davvero fatto così, di una gentile disponibilità e sincera semplicità ... quasi disarmante per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo direttamente).

A seguire "One more red nightmare" che forse (per me almeno) non è tra le riproposte più riuscite del vecchio repertorio. E le ragioni forse sono che in primis le tre batterie non riescono a competere "concettualmente" con il drumming originale di Bruford (l'intelligenza musicale di quella stagione dell'ex Yes è a tutt'oggi ancora insuperata) e che la voce di Jakko fatica a mantenere corpo timbrico quando viene spinta in una dimensione più rauca. Indubbiamente però la massa sonica che travolge il pubblico è notevole ed è sicuramente sempre un piacere ascoltarne e subirne fisicamente la potenza sonora (soprattutto il finale con un Mel Collins ancora scatenato).

La bestia a sette teste riprende a macinare suono con la muscolare prima parte di  "Radical Action (To Unseat The Hold Of Monkey Mind)", una composizione geometrica in pieno stille frippiano post-Exposure ... è sempre un privilegio assistere ad una sua esecuzione così compatta e densa. la stratificazione delle tre batterie ha del diabolico qui e ci sarebbe da perdersi nell'ascoltarne le parti individuali.

Improvvisamente, magicamente tutto si calma per lasciare spazio all'accordo di pianoforte che inequivocabilmente fa emergere la profonda emozione che si andrà a vivere a breve ... "Island". In questo caso la riflessione del "chi l'avrebbe mai detto" è forse quella che mi sono ripetuto di più in questi anni ... e ricordo anche di averlo detto a Jakko in occasione del suo concerto a Mestre nel 2006, quando con mia massima soddisfazione la eseguì in coppia con il solo Collins ... ascoltarla anche questa sera nella cornice completa della corte ufficiale mi emoziona tantissimo e mi fa riflettere sul fatto che probabilmente questa è la "vera "starless" dei King Crimson, o per lo meno è la più rigorosamente frippiana (ovvio che il brano che concludeva "red" vive di una straordinaria luce propria ... sempre). Credo sia opportuno sottolineare cone questa "nuova" versione di "Island" sia evidentemente figlia della meravigliosa rielaborazione che Jakko aveva proposto nel suo eccellente album "The bruised romantic glee club" del 2006 ... apprezzata all'epoca anche dallo stesso Fripp (ospite peraltro nell'album). Peccato che - a differenza di quanto accaduto a Venezia l'anno scorso - l'entusiasmo del pubblico dell'Arena abbia iniziato ad applaudire a finale non ancora concluso, nascondendo lo stupendo e concettuoso rumore dello spegnimento dell'armonium originale che Fripp ha voluto lasciare come ultimo "rumore" di questo incredibile brano ... come dire se c'è questo "rumore" un motivo ci dovrà pur essere no? ... alla Fenice fu magico, qui meno.

"Cat food" (che avevo ascoltato nel soundcheck di Palmanova, ma che era stata omessa dalla scaletta abbreviata dopo il diluvio) era uno dei brani che avrei da sempre voluto ascoltare live. Tutto regge, il brano rimane profondamente sexy e coinvolgente (grazie ancora una volta al sax alto di Collins) ... tranne forse la voce che (anche in questo caso) necessiterebbe di maggiore potenza e corpo per essere gridata "look-a-Lake" e la scelta di cambiare l'armonia del ritornello non sembra la più riuscita.
E a proposito di "cose" non completamente riuscite (a mio modestissimo avviso ovviamente) è la nuova "Frame by Frame" ... ma confido nel fatto che sia solo la seconda volta che la ascolto in questa particolarissima rielaborazione (a Palmanova mi aveva davvero lasciato basito ... anche durante il breve soundcheck). E' però  sicuramente un buon segno che si sia voluto rileggere un brano simbolo dell'era con Belew e che si sia cercato di portarlo in una dimensione leggermente diversa, aggiornata, ma qualcosa non mi convince e sembra tutto abbastanza slegato (il flauto di Collins a volte sembra un po' forzato nell'evoluzione della tonalità) ... chissà che alla fine di questo tour non siano riusciti a migliorarla e renderla definitivamente compatta e coerente con l'intero repertorio.

"Drumzilla" è uno dei nuovi momenti poliritmici e spettacolari del trio di moderni multitamburini fronte palco. E' una gioia per gli occhi vederli alle prese con queste composizioni rigorose e allo stesso tempo apparentemente multimensionali. Dedicata a tutti i detrattori di questa scelta a tre batterie.

"Radical II" ritorna alla dimensione più muscolare del settetto e ricorda sempre l'origine dello stile dell'ultimo Fripp, spigoloso ma allo stesso tempo capace di coinvolgere l'ascolto con un "rock-no-rock-groove" unico nel suo genere. Personalmente è una di quelle indicazioni di stile che apprezzo tantissimo in un musicista creativo ed innovativo come Fripp (soprattutto a 73 anni).

Ma di fatto è solo un interludio per "Level five", più propriamente identificata come la quinta parte di "Larks' tongues in aspic", l'idea "senza fine" che Fripp porta avanti ormai dal 1973. Poderosa, imponente con il baritono di Collins (nonostante qualche indecisione) a sottolineare l'incedere marziale e minaccioso dell'intero combo regimentato in una dimensione decisamente rigoroso ma ugualmente ritmicamente esplosivo. Peccato per il mix in ascolto dove le due chitarre (ed il basso) risultano un po' troppo impastate per poter apprezzare l'intricata rete di unisoni e non ... ma non è certo una facile impresa rendere perfettamente distinguibili le parti in una dimensione sonora così complessa. ancora una volta la "voce" inconfondibile del sax alto di Collins (72 primavere anche lui) emerge sul rigoroso riff centrale, portante e ossessivo.

E pensare che a questo punto sono solo all'intervallo ... "quello che avviene dopo la prima parte e prima della seconda parte" ... come acutamente ci ricorda Fripp.

Annoto che la ripresa del concerto è stata affidata a "The Sheltering sky" (che avevo sentito nell'assolato soundcheck pre-cataclisma di Palmanova) ed è stata una piacevolissima sorpresa anche se l'impressione che ho avuto io è che sia stato de facto una specie di invito sonoro al "disordinato" pubblico ritardatario di recuperare il proprio posto per il vero inizio della seconda parte dello spettacolo. Brano suggestivo e propiziatorio nell'auspicio di uno "scudo del cielo" contro le intemperie ... ho pensato di come non fosse stato efficace due giorni prima e scaramanticamente ho temuto il peggio. Una versione sospesa, eccellente con il flauto di Collins ed i cluster pianistici di Stacey a fare da contrappunto alle evoluzioni chitarristiche di Fripp.

"The construkction of light" riprende a macinare musica con ordine e disciplina crimsoniana, una composizione di un momento creativamente straordinario (2000-2003) che poi di fatto è l'ultima manifestazione completamente progressiva ed evolutiva delle composizioni di corte ... l'ultima stagione totalmente creativa (sia nell'atteggiamento compositivo che nella dimensione radicalmente e selvaggiamente free). Come ormai cosolidato dagli ultimi anni si tratta della versione esclusivamente strumentale, logicamente emendata del contributo vocale che fu di Belew all'epoca.

Inaspettatamente (credevo foose stato escluso oggi) arriva uno dei brani amo di più dell'intero repertorio crimsoniano ... quel rivoluzionario "Circus" che ancora oggi mantiene inalterate tutte le emozioni dell'epoca grazie anche ad un arrangiamento accuratissimo e fedelissimo all'originale ... dalla reazione di tutte le platee che ho potuto verificare è decisamente un brano fondamentale per molti appassionati (e - del resto - come potrebbe essere diversamente???) ... un'altra ottima ragione per ringraziare questa formazione per averlo fatto risuonare ovunque dopo un destino d'oblio che sembrava ormai segnato.

Altro salto quantico per raggiungere "Neurotica" nella versione riadattata e priva di parte delle liriche originali di Belew. Un brano potentissimo dove lo stile ruvido e pesante di Stacey mescolato all'ondivago basso di Tony Levin offre un perfetto tappeto per le evoluzioni di Mel Collins e l'orchestrale arrangiamento chitarristico. La parte cantata più propriamente "song" del brano risulta comunque efficace nonostante la limitazione ed il taglio del testo originale e Jakko riesce ad offrire anche alcune sfumature interpretative originali che confermano la sua straordinaria versatilità vocale.

Solo a questo punto, realizzo che dall'inizio della seconda parte, ho puntati contro gli occhi tutti i fari d'ambiente posti nella parte alta delle americane sul palco. Probabilmente all'inizio, concentrato e motivato dalla musica non ho fatto caso a questa presenza, probabilmente considerandola inconsciamente legata alla necessità di offrire una minima illuminazione al pubblico che ritardava a riprendere il proprio posto dopo la pausa (volutamente ridotta dal gruppo).
Invece questa luce sugli occhi me la ritrovo ancora dopo un quarto d'ora dall'inizio del secondo set e realizzo quanto fastidiosa sia ... quanto devastante sia per toglier una parte della magia dell'Arena di Verona e del palco stesso. E mi è tornata in mente la polemica nata a Venezia, alla Fenice quando duranta la prima delle due serate (27 luglio) il pubblico (ed io tra tutti) della platea fu costretto ad assistere all'INTERO concerto con due paia di fastidiosissimi par puntati sugli occhi ... una sofferenza difficilmente giustificabile razionalmente. Ricordo di aver espresso a fine concerto parecchie lamentele al personale di sala credendo si fosse trattato di una mancanza delle italiche maestranze (incompetenti). Ed invece ricordo che all'incontro pomeridiano del giorno successivo il monarca in persona, sicuramente avvisato del malumore serpeggiato tra il pubblico la sera prima, disse che in realtà la luce sulla platea era stata una sua esplicita richiesta perchè voleva "vederci in viso" per aumentare il contatto e generare empatia ... giuro che rimasi a bocca aperta per una simile assurda giustificazione ... ma fui confortato dall'assicurazione della massima autorità di corte che durate il secondo spettacolo quelle luci sarebbero state ampiamente ridimensionate (e così fu, lasciando "solamente" un paio di par sfumati negli occhi del pubblico).
Ora, mi sono domandato se anche in questo caso Doc Robert avesse voluto "interagire con noi" ma mi sono particolarmente risentito perchè pur comprendendo appieno (senza condividerla altrettanto convintamente però) la politica del "no photo/no video" durante il concerto richiesta dai musicisti non riesco a capire come gli stessi possano imporre ad un pubblico pagante una presenza costante di luci negli occhi durante uno spettacolo ... è una questione di rispetto reciproco oppure il pubblico davvero deve ritenersi "suddito" non solo concettualmente e per passione creativa, ma anche come "gentil selvaggio" da domare? E' solo la mia stima per l'arte di questi musicisti che mi fa accettare questa scandalosa imposizione ... ma probabilmente sarà l'ultima volta (proprio per rispetto anche al mio ruolo di appassionato spettatore).

Ad ogni modo le sognanti note di "Moonchild" e la meravigliosa voce filtrata di Jakko prendono forma nell'aria (rendendo ancora più stridente la presenza delle luci negli occhi ... al punto che decido di indossare gli occhiali da sole) e mi riportano alla musica, al vero motivo della mia presenza in un luogo sì promiscuo. Sono contento abbiano deciso di "espandere" l'oasi sonora del brano (che fu di rivoluzionaria importanza nel 1969, meglio ricordarselo!) inserendo quelle che vengono chiamate "Cadenzae" caratterizzate da brevi interludi di Levin, Fripp (magico ... avrebbe potuto andare avanti per ore se fosse stato per me!!!) e Stacey che fungono da preludio al brano successivo, il maestoso "In the Court of the Crimson King".

Ben poco da dire a proposito, se non che avevo già notato la puntualizzazione nelle ultime scalette dell'indicazione "+ Coda" in calce al titolo ... ed è stata una piacevole sorpresa (solo parziale dato che l'avevo già sentita già a Palmanova comunque) dell'aggiunta del finalino conclusivo originale, venato di puro caos dove Jakko utilizza finalmente la piccola tastiera davanti a lui  ma soprattutto dove brilla -  assoluta - l'attitudine "full arm on the keyboard" a-la-Jerry Lee Lewis di Fripp alla tastiera "gusto mellotron" (amabile sorprendente goliardica novità ed indimenticabile come i suoi baci alle chitarre all'inizio e alla fine dei concerti di qualche anno fa).

Indubbiamente tra i momenti più spettacolari di questi ultimi anni cremisi è quello dedicato alla riproposizione di "Indiscipline", dove la triade batteristica fa sfoggio di bravura, intelligenza, misura e umorismo nello stesso tempo, spettacolarizzando i primi cinque minuti di un ostinato in continuo crescendo che davvero offre eccellente preludio per l'esplosione del grintoso tema principale del brano (datato 1981). Sicuramente tra i momenti visivamente più entusiasmanti dell'intero concerto (anche se devo dire che a mio avviso a Palmanova c'era tutt'altra voglia di fare casino). Non finirò mai di sottolineare l'intelligente di-versione e adattamento di Jakko della parte cantata origiariamente di Belew, un quasi-scat che aggiunge personalità musicale al brano in sostituzione all'estemporanea e nevrotica interpretazione originale. Inutile cercare di "imitare" Belew, meglio di gran lunga "rinnovare" la sua parte. Complimenti! (anche se so che a molti questa scelta non è mai piaciuta). Mi preme anche ricordare l'assalto chitarristico di Fripp dopo il primo stop ... una cattiveria che alla sua età è davvero invidiabile.

Siamo verso la fine evidentemente dato che le note di mellotron di "Starless" iniziano a tracciare il primo segno che la separazione dalla corte è vicina, molto vicina ... troppo forse. Un flash immediatamente prima è il preludio ad un inaspettata indecisione di Fripp alla seconda esposizione dell'immortale tema della canzone ... certo, è umano anche lui ed in questi momenti ci si rende conto di quanto sia  estremamente vulnerabile nel suo momento performantico (nonostante tutti questi anni) ... peccato per chi (in parecchi vicino a me) ha voluto sottolieare subito questa indecisione quasi con invidiosa soddisfazione (non è certo il mio caso). 

MALEDETTE LUCI !!! come è possibile ascoltare e guardare contemporaneamente l'universo intorno alla band diventare rosso fuoco con delle luci bianche puntate sul viso ??? Come rovinare un momento destinato al ricordo definitivo !!! Imperdonabile (qualunque sia la motivazione). 

"Starless" è un lungo addio ... ed è probabilmente il vero addio che bisognerà dare alla band alla fine di questa tournee celebrativa (non è un mio auspicio e tantomeno un mio augurio, ma è ragionevole pensare che dopo tutti questi anni in cui ci è stato regalato un viaggio nel mondo anche passato remoto dei suoni della corte cremisi sia ora e tempo di rivedere il progetto, secondo i ben noti canoni frippiani e le sue stagioni creative). Io sono personalmente convinto che in futuro, negli anni, si racconterà dei concerti di questa band come di qualche cosa di incredibile, di mitico ... rivolgendosi inevitabilment alle numerose documentazioni video fortunatamente disponibili, ma esserci stato di persona sarà privilegio unico del nostro presente ... mentre arriva il tema finale ... fin de partie.

A poco serve il travolgente rientro sul palco della "bestia a sette teste" per una fiammeggiante versione di "Schizoid man" caratterizzata da quattro elementi essenziali:
1 - la violenza del solo di Mel Collins ...
2 - l'altrettanta spropositata violenza di Fripp nel far deragliare nello spazio di un solo secondo musicale l'ennesimo "treno in per Sugar Hill in Harlem" evidentemente preso ancora una volta da Mel Collins ...
3 - l'alieno assolo di batteria di Gavin Harrison
4 - l'idiozia degli urletti del pubblico nelle pause finali
Ma in fondo in fondo è davvero l'ultimo rito collettivo che mancava quest'oggi per completare questo inevitabile lungo addio ... ricordare cioè da dove tutto è partito ... dalla profezia/indicazione dell'esistenza di una nuova forma evolutiva umanoide, quegli uomini schizoidi del 21mo secolo che (per loro fortuna) nonostante le brutture vissute e prodotte hanno avuto l'opportunità di accompagnare le proprie giornate anche con una musica unica ed irripetibile come quella dei King Crimson.

Amen

mercoledì 3 luglio 2019

CABALLERO REYNALDO "Cromos" (2019)

... scrivere canzoni POP di spessore ed intelligenza non è proprio da tutti e spesso succede che abili arrangiamenti organizzati con cura e ruffianeria riescono a nascondere il "vuoto" dentro una finta canzone pop.

Ma nel caso di Caballero Reynaldo è invece piuttosto interessante perchè il suo essere contemporaneamente musicista versatile, compositore originale e musicologo raffinato gli permette una discreta vastità d'orizzonte creativo entro cui scegliere come declinare i suoi progetti musicali. 

Ho già avuto modo di sottolineare da poco "altrove" la qualità del suo più recente progetto "collettivo" chiamato "Los Visionarios". Con "Cromos" invece si ritorna ad un contesto più propriamente "modernamente cantautoriale". La capacità di Luis Gonzales (il nome "terrestre" dell'alter ego Reynaldo) di scrivere pure canzoni pop (moderne) è assolutamente indubbia e lascia trasparire gli innumerevoli ascolti che ha incamerato in tutti questi anni di "militanza sonora" e di attività di ricerca (personale ed artistica). Le canzoni di "Cromos" sono solo apparentemente semplici e "banali" ma in realtà si caratterizzano per una intima sottile complessità degli stessi arrangiamenti, che sono così parte integrante del processo creativo e non semplice mestierante "aggiustamento/ottimizzazione commerciale" del prodotto. 

Dal mio personalissimo punto di vista, condividendo con Luis la passione per un significativo numero di artisti internazionali (spesso radicalmente lontani dalla musica qui presentata), non faccio fatica a coglierne le eraborate derivazioni di ispirazione e quindi è come se queste canzoni facessero parte del mio stesso "dna d'ascolto" ... direi che solamente l'idioma ispanico mi risulta esotico (ma non sgradito) e in un certo qual modo a volte mi distrae dal seguire con attenzione tutte le soluzioni d'arrangiamento e produzione qui adottate. Ma ... quasi come se lo avesse fatto per farmi una cortesia, Luis ha completato la compilazione di questo album con l'inclusione di tutte le canzoni nella loro versione strumentale ... perfetto per me e probabilmente rivelatorio e sorprendente per tutti.

In conclusione, un bel disco di pop ispanico indipendente, non certo destinato ad essere tormentone da eurofestival, capace di offrire una ventata di aria fresca in questa afosa estate del 2019 ... e magari suggerire a qualcuno di andare a recuperare l'ascolto della precedente sconfinata discografia del Caballero Reynaldo perchè c'è davvero molto da scoprire.

Complimenti !!!!