mercoledì 7 ottobre 2009

GAVIN BRYARS - The sinking of the Titanic (1975)



... non ci sono parole per descrivere il contenuto di questo capolavoro (in assoluto uno dei dischi più sconvolgenti sia musicalmente che concettualmente) che ancora dopo tanti anni rimane un punto cardine attorno a cui ruotare (quando presente) la lucidità creativa disponibile.
Gli aneddoti a riguardo sono molti, ma il suono che si espande dai solchi di questo misero oggetto di PVC colpiscono e turbano, annullando lo spazio ed il tempo circostante per tutta la durata del suo concentrico duplice percorso.

"The sinking of the Titanic" (1969) e "Jesus' blood never failed me yet" (1972) rappresentano per me un irripetibile esempio di culmine creativo indiscutibile di una concettualità applicata all'arte del suono non più di moda ormai, ma che orgogliosamente a volte vale la pena di rivendicare e ricordare.

HARRY "SUNI" McGRATH - Cornflower Suite (1969)



Non ho idea di quante persone conoscano questo oscuro artista della chitarra (principalmente a 12 corde) le cui produzioni hanno trovato scarsa eco nel convulso panorama musicale a cavallo tra la fine degli anni sessanta ed i primi settanta.
Eppure questo talentuoso chitarrista irlandese di nascita, ha certamente contribuito a tracciare avventurose traiettorie nella musica acustica di derivazione "folk" sulla scia di un fenomeno innovatore quale è stato l'americano John Fahey. Armonie a volte paradossali e rigorose "scordature" naturali fanno costantemente capolino nel sound di Suni che acquisisce anche un carattere quasi visionario in alcuni momenti di questa raccolta pubblicata nel 1969.
Il suo stile di "fingerpicking" non è sempre preciso ed impeccabile (anzi, a volte è proprio soprendentemente "sconnesso") ma è anche questo un aspetto che lo rende "empatico" all'ascoltatore in una dimensione di audio-verità che risulta inevitabilmente umana e reale. Così come anche alcune digressioni chitarristiche "orientaleggianti" ed ingenue (Blue domes of Isfahan) contribuiscono al guazzabuglio generale di un suono curioso e volutamente rivolto alle innumerevoli possibili soluzioni/ripercussioni delle collisioni provocate da convergenti traiettorie musicali intraprese.

KAY GARDNER - Avalon (1988)



Suggestiva registrazione (effettuata con mezzi di fortuna durante una seduta di meditazione all'aperto presso l'abbazia di Glastonbury in Gran Bretagna) dove la virtuosa flautista statunitense "colora" l'ambiente circostante con le sue dolcissime evoluzioni strumentali.
Pubblicato in tiratura limitatissima per l'ultra-oltranzista etichetta femminista e catalogo musicale americano esclusivamente al femminile "Ladyslipper music" questo lavoro non ha più trovato una collocazione ufficiale nelle ristampe successive delle numerose composizioni e performances della Gardner.

La dimensione spirituale della missione taumaturgica della musica della Gardner emerge in tutta la sua potenza con queste improvvisazioni al flauto registrate open-air tra le rovine dell'abbazia e sulle sponde di un ruscello vicino. E' uno scenario tipico della fenomenologia della "new Age" di fine anni '80, nel pieno del suo splendore mediatico (e commerciale).
Solo che per quello che riguarda Key Gardner, le sue notevoli qualità di compositrice - a prescindere dalla pulsione del movimento esoterico post-hippie del momento - le hanno permesso di spaziare con grandissima disinvoltura ed efficacia dalla musica improvvisata alla musica orchestrale .

Naturalmente - nello specifico - questo raro nastro è in realtà un "reperto" da ascoltare con la consapevolezza e la delicatezza che non solo di musica si tratta, quanto invece del manifesto di "un sogno", di un'illusione culturale che in pochi anni è stata spazzata via dal vecchio cinismo del nuovo millennio.

HAPPY THE MAN - Happy the man (1977)



Superbo debutto discografico per questo gruppo made in USA che ha saputo dare una eccellente dimostrazione di intelligenza e capacità nel declinare il rock sinfonico - o meglio il "prog europeo" - con accenti più enfatizzati, muscolari e soprattutto tecnicamente molto impegnativi.
Inutile dire che nel sound degli Happy The Man gli echi di gruppi come inglesi come Gentle Giant o Yes si mescolano efficacemente a suggestioni poliritmiche quasi zappiane.
Pochi e sintetici spazi per le brevi parti cantate (ed in effetti non si può parlare di grande interpretazione vocale in assoluto) ma tantissma qualità solistica e di organizzazione sonora generale.
Interessante ricordare come questa band sia stata pressochè ignorata all'epoca e - di conseguenza - destinata ad un inevitabile scioglimento in breve tempo, ma curiosamente rivalutata in maniera entusiastica due decadi dopo dalla nuova generazione di appassionati "progressive" planetari. Nel frattempo ovviamente i musicisti originariamente coinvolti nel progetto che si erano persi di vista tra carriere riuscite e fallite (e non necessariamente nell'ambito musicale) hanno trovato nuove motivazioni per una reunion che non ha fatto altro che rinverdire entusiasmi passati e lontani nel tempo per i pochi primi fans e contemporaneamente confermare quanto di buono era stato scoperto dalle nuove generazioni.