mercoledì 18 marzo 2009

EMIL RICHARDS & New sound element - Stones (1966)



Che meraviglia!

Due grandi della musica americana alle prese con un album di respiro sonoro proiettato verso un possibile futuro.

EMIL RICHARDS (anche conoscito come Emilio Radocchia) è stato a più riprese collaboratore anche di Frank Zappa (Lumpy Gravy, Zappa in New York e molte altre occasioni) ed è uno dei più raffinati percussionisti della scena della nuova musica americana dell'ultima metà del secolo scorso.

PAUL BEAVER non meriterebbe nemmeno una qualsiasi introduzione, ma nel caso non sia abbastanza chiara la sua identità, basta dire che è stato artefice di alcune tra le pagine più interessanti della prima sperimentazione elettronica moderna al cui apice va posto il progetto musicale sperimentale realizzato con BERNIE KRAUSE (immortale l'opera "The Nonesuch Guide to Electronic Music " e lo straordinario album "Gandharva")

Questo disco di fatto è a nome del solo Richards ma l'intera sezione elettronica che accompagna le complesse partiture ritmiche delle percussioni è frutto della genialità e dell'estro creativo del solo Paul Beaver (nascosto dietro lo pseudonimo ridondante di NEW SOUND ELEMENTS).

12 brani (ognuno dedicato ad un mese dell'anno) tutti assolutamente inarrivabili per scelte timbriche originalissime e per la cura della composizione/improvvisazione.

Da avere assolutamente!

RAINBOW FFOLLY - "Sallies Fforth" (1968)



Invece questo è un disco straordinario.

Compagni di etichetta degli ingombranti e ben più famosi BEATLES, i RAINBOW FFOLLY trovano il tempo di inventarsi una formula davvero originale di "intellipop" ante-litteram, venato di psichedelia e di felicissime intuizioni "sonore" sperimentali, che poi diventeranno cifra stilistica di bands come ad esempio 10CC o primi SUPERTRAMP.

L'innegabile humor, una grande competenza musicale ed una davvero eccellente capacità compositiva fanno della band una straordinaria alternativa alla strabordante fama dei Fab Four e a posteriori mantengono un fascino che a volte supera molte delle produzioni a loro contemporanee.

Meritano più di un ascolto "musicologico" perchè nel sound di questo gruppo ci sono molti elementi di base del pop intelligente che successivamente emergerà nella stagione post-Beatles.

ALEXANDER RABBIT - The hunchback of Notre Dame" (1970)



Curioso esempio di Progressive Pop assolutamente dimenticato nel guazzabuglio intricato della musica post-psichedelica della prima metà degli anni settanta.

Definirlo un capolavoro sarebbe davvero eccessivo, ma consigliarne l'ascolto non è affatto idea così peregrina.

Alexander Rabbit è di fatto l'evoluzione artistica di una oscura band americana della fine degli anni sessanta chiamata THE GALAXIES (dopo 5 differenti evoluzioni del line-up).

Formato da Chris Holmes (chitarre), Charles Brodowicz (tastiere), Len Demski (basso), Alan Fowler (batteria) e Steve Scheier (voce solista) il gruppo non può certo annoverare un seguito da giustificarne una qualche importanza dello scenario musicale contemporaneo, eppure l'unico disco prodotto nel 1970 - appunto "The hunchback of Notre Dame (The Bells Were My Friend)" - è un piacevole esempio di tentativo di coniugare atmosfere cantabili ed evocative ad altre più marcatamente impegnate e ponderose. Una sorta di Moody Blues forse meno sperimentali (nella relativa misura in cui possiamo definirli tali, ovviamente) e più inclini alla melodia tradizionale.
Ma è proprio questa forma di "ibrido musicale" che a posteriori conferisce a questo album (così come a tanti altri dimenticati "cugini poveri" della stagione musicale di allora) un interesse così particolare.
Compresa la coraggiosa versione di un grande classico di Otis Redding quale "I've been loving you too long" non sfigura nel tentativo portato "scientemente" avanti di collegare le differenti possibili origini degli ascolti di ogni singolo componente la band.