mercoledì 27 gennaio 2010

SOFT MACHINE - Grides (1970)



L'autunno del 1970 vede i Soft Machine in stabile quartetto, quello definibile forse "classico" per la svolta jazz del gruppo.

Lasciate le efficaci sperimentazioni con il line-up aumentato da più strumenti a fiato, Wyatt, Ratledge Hopper e Dean danno il via alle "danze" della definitiva consacrazione del jazz progressivo. Hanno già registrato la parte in studio che avrebbe completato la produzione del terzo album (lo storico "Third" appunto) ma sono nuovamente in tour, per mantenere viva la forza creativa del collettivo.

Grides contiene un concerto registrato il 25 ottobre del 1970 al ben noto Concertgebouw di Amsterdam, ma la nota peculiare di questa documentazione ovviamente postuma sta nel riscontrare un certo maggiore "ordine" ed una minore aggressività del gruppo stesso, impegnato apparentemente molto di più ad "ascoltarsi" più che non ad aggredire un pubblico. Probabilmente la consapevolezza di recitare un ruolo sempre più fondante nella nuova scena rock inglese ibridata con il jazz europeo suggerisce inconsciamente ai musicisti un maggior controllo sostanziale nella performance. Ciò non significa assolutamente perdita di estro e creatività, quanto piuttosto una evidente manifestazione di perfetto meccanismo simbiotico tra le quattro menti che finalmente trovano un terreno comune nella dimensione live (cosa che non sempre lo studio aveva saputo mantenere ... vedansi i problemi con la "Moon in June" di Wyatt ed il suo leggendario "fai da te" proprio del "Third" e/o nelle sessioni alla BBC documentate prima in "Triple Echo" e poi, successivamente in "Soft Machine turns on / The Peel sessions").

Questa minor dose di "cattiveria performantica" suggerisce un ascolto più rilassato per apprezzare il grado di maturità e di interplay raggiunto tra i quattro (soprattutto tra Hopper e Wyatt) ed il senso estetico formale del linguaggio in divenire prende il sopravvento sulla carica animale di solo qualche mese prima.


SOFT MACHINE - Breda Reactor (1970)



Nell'interminabile (per fortuna) elenco di pubblicazioni postume della macchina morbida, ha un suo peso questa registrazione del 31 gennaio 1970 che, nonostante sia di qualità non proprio eccelsa, permette di approfondire ulteriormente la potenza creativa di quel particolare momento nella scena di un behaviour rock "contaminato" da un approccio decisamente jazz.

Stesso line up (ovviamente) di quello che nel 2000 verrà proposto nel cd "Noisette", ma la carica sonora del gruppo si rivela di gran lunga più selvaggia e violenta in questo set (registrato a Breda in Olanda peraltro solamente quattro giorni prima).

Indubbiamente il suono più grezzo aiuta probabilmente ad "incattivire" maggiormente il "sound" generale del gruppo, ma sembra evidente però una certa quale maggiore determinazione ad una sorta di aggressione sonora nei confronti del pubblico messa in atto dal quintetto.

Il basso distorto di Hopper si fa penetrante ed implacabile nel sorreggere con un suono muscolare ogni evoluzione degli altri, capace comunque di sospendersi a volte magicamente con quel suono dolce, statico e rotondo come una sfera perfettamente levigata appoggiata ad un piano altrettanto perfettamente in bolla. Anche il flauto di Lyn Dobson sembra più "cattivo" e presente nell'economia generale della peformance (e qui "Backwards" ne è l'esempio più illuminante).

Ratledge è semplicemente inarrivabile nelle lunghe cavalcata distorte dei suoi a-solo (una sorta di "Gengis Khan-like attack" ante litteram) in "Moon in June" e nella altrettanto lunga e stravolta versione di "Facelift" dove anche il flauto di Dobson si ritaglia uno spazio apparentemente quasi "anomalo", mentre del tutto inaspettata fa la sua breve comparsa tra gli audio-colori fin qui follemente amalgamati addirittura una armonica a bocca ... decisamente devastante e - ad onor del vero - devastata.

La spettrale voce anemica di Wyatt compare sporadicamente ormai dal caos elettrico ("Hibou Anemone & Bear", "Cymbalism" e la Ayersiana conclusiva "We did it again") ma è solo la traccia sbiadita di un passato dove anche l'elemento vocale raccontava delle storie ... ma evidentemente questo era il tempo delle grida e non certo dei sussurri.

SOFT MACHINE - Noisette (1970)



Quando la macchina si mette in moto, magari con un assetto decisamente "sportivo" i risultati sono davvero formidabili.

E'il 4 febbraio del 1970 quando la macchina morbida invade il salone delle fiere di Croydon. il gruppo non è più lo stesso dell'ultima fatica discografica pubblicata l'anno prima) ma vede al suo interno anche due fiatisti della nuova generazione di jazzisti d'albione quali Elton Dean e Lyn Dobson (il primo proseguirà ancora per molti anni l'esperienza nella band, con il secondo - già memorabile componente della band di Manfred Mann - il tutto si rivelerà essenzialmente una valida collaborazione artistica).

Il concerto di quella serata di febbraio dovrà attendere trent'anni per essere completamente documentato su Compact Disc (a parte un frammento della composizione "Facelift" proposto nel terzo album ufficiale del gruppo ed una quantità infinita di dischi clandestini a riguardo).

Nonostante questo incredibile lasso di tempo trascorso, il materiale proposto risulta ancora oggi assolutamente innovativo e coraggioso per l'epoca e sebbene venga posta con maggiore inequivocabile certezza l'intenzione dei muscisti coinvolti di dirigersi verso una forma di jazz elettrico sempre più potenzialmente "intro-contro-verso", la qualità della musica prodotta ha davvero dell'incredibile considerati i tempi.

In grande spolvero è la sezione ritmica (Wyatt e Hopper) come straordinario è il lavoro (sempre troppo spesso ingiustamente dimenticato) di Ratledge alle tastiere, mentre ai due fiati è "semplicemente" affidato il compito di aggiungere l'elemento più "jazzato" nel suono e nell'attitudine all'improvvisazione.

Un ascolto che prevede sicuramente attenzione e concentrazione, ma in cambio offre ancora una grande soddisfazione estetica musicale.

SOFT MACHINE - Volume 2 (1969)



Le cose si sono fatte terribilmente serie nel secondo capitolo della "macchina morbida" e la transizione verso una forma molto più complessa (ma nello stesso tempo autocompiaciuta) dimensione sonora è assolutamente evidente.

Come è immediatamente evidente che la quantità di energia creativa presente nei componenti la band sia debordante ed incontenibile, sospinta da una trance artistica destinata a trasportarli verso acrobatiche ibridazioni sonore di sicuro effetto nell'ascoltatore alla ricerca del "nuovo" e "progressivo" linguaggio giovanile proteso verso una prodigiosa emancipazione intellettuale dalle generazioni precedenti.

E meno male che il flusso creativo della macchina non si ferma nemmeno per un minuto proponendo questo Volume 2 come una insuperata esperienza d'ascolto totale, capace di muovere il cervello in una piacevolissima danza d'attenzione e concentrazione.

SOFT MACHINE - The Soft Machine (1968)



A distanza di 32 anni non ho ancora capito in che cosa davvero consista lo straordinario fascino dei primi Soft Machine.

E attenzione, non parlo della deriva jazz progressiva che meritoriamente ha visto il gruppo rappresentare una specie di intelligente perversa fusione di linguaggi differenti tra loro come il jazz, il soul ed il rock. Mi riferisco essenzialmente a quella forma di "psichedelia mutante" che permette ad uno dei più improbabili tra i "power trio" dell'epoca (basso batteria e tastiere) di raccontare storie di laterale esistenza e behaviour in canzoncine dalle melodie apparentemente fragili e lineari sorrette da un potente impianto musicale progressivo "deviato" dalle distorsioni e dalle "mutazioni elettromagnetiche" di strumenti filtrati e manipolati fino all'esasperazione.

Qualunque sia il giudizio artistico, non si può non apprezzare la volontà di andare "oltre", di sperimentare per quanto possibile ogni forma di interazione musicale tra strumenti, personalità e sensibilità dei singoli musicisti coinvolti, uniti verso l'unico obiettivo di spostare i confini del "possibile" nello scenario sonoro (e non solo quello) in ebollizione della gioventù musicale della fine degli anni sessanta.

Suggerire di ascoltare ADESSO i Soft Machine alle generazioni giovani è (per mutuare una citazione da un ben noto "altrove") COSA BUONA E GIUSTA, soprattutto perchè potrebbe essere l'unica speranza per ricordare che per raggiungere nuove frontiere dell'arte bisogna avere anche il coraggio di ricercare nuove soluzioni, cavalcare nuove idee e non avere paura della claustrofobia delle terribili "nicchie" in cui si rischia (anzi si ha le certezza) di essere collocati da generazioni distratte e scarsamente inclini a stimolare le emozioni individuali, preferendo una cultura massificata ed uniformata.

In fondo (ancora metaforicamente) SOFT MACHINE è una pietra, e su quella pietra ...