giovedì 19 febbraio 2015

Residents - Bologna 12 giugno 1983 - Area Parco Nord

12 giugno 1983
Una Fiat Panda si avvicina all’area parcheggio del Parco Nord di Bologna. Tutto intorno non è poi così affollato, anzi, non si direbbe proprio che poco lontano è stato allestito un tendone pronto ad ospitare un “concerto” o forse meglio definirlo un “rito multimediale collettivo”.
Dalla celebre italica utilitaria scendiamo in quattro, entusiasti e quasi increduli di essere ormai a pochi minuti dal coronare un sogno, vedere dal vivo i leggendari RESIDENTS.
E’ ancora molto viva in noi la gioia di aver scoperto tra i dischi oscuri d’importazione del negozietto di campo San Barnaba (in Venezia) titoli come “Duck stab”, “Not Available”, “The Third Reich and Roll” e lo straordinario “Eskimo” o l’incredibile “Commercial album”. Certo, sappiamo che questo appuntamento è dedicato alla presentazione di un unico lavoro, la trilogia oscura “The Mole Trilogy” di cui conosciamo già la prima e la seconda parte, ma per mille motivi non siamo davvero in grado di immaginare cosa davvero vedremo tra qualche minuto.
Ci siamo però premuniti di attrezzatura per registrare e fotografare il possibile, ma l’entusiasmo di questa potenziale impresa documentaristica viene immediatamente frustrato dalla presenza di alcuni carabinieri all’ingresso del grande tendone. Veniamo fatti oggetto di perquisizione e la macchina fotografica viene trattenuta momentaneamente … per fortuna però il registratore portatile (una specie di walkman smontabile … ed appositamente smontato alla bisogna) non viene individuate e requisito e grazie ad un microfono a forma di penna da taschino ci siamo garantiti la possibilità di immortalare l’audio dell’evento (ed infatti mentre scrivo adesso, quasi 32 anni dopo, sto ascoltando quella registrazione preziosa accuratamente conservata in memoria digitale). Entrati nel tendone vediamo immediatamente un frenetico andirivieni di personaggi vestiti con delle tute nere e che indossano naso, baffi ed occhiali di plastica finti … è davvero tutto molto surreale eppure il fonico ha in effetti naso-baffi-occhiali come anche i tecnici sotto al palco.
La scenografia è stranissima, con questi due giganteschi teloni ai lati del palco (le due città oggetto del concept delle talpe) e delle gabbie (o qualcosa di simile) al centro del palco, sembrano postazioni desertiche mimetizzate dei DAK (Deutsches Afrikakorps) e all’interno di esse si intuisce la presenza delle allora immaginifiche macchine sonore chiamate E-Mu.
Le luci si spengono ed incredibilmente viene diffusa ad altissimo volume una musica a noi completamente sconosciuta (non era stato ancora pubblicato infatti l’EP “Intermission”) ma assolutamente coinvolgente.
Ci siamo davvero !!!
Inizia da quel momento un viaggio a doppio binario tra le note della musica sotterranea e quella “di superficie”, melodie mutanti e mutate capaci di descrivere due vite possibili (in un contesto irreale), e le multicolori coreografie dei ballerini contribuiscono con grande forza all’impatto della performance. Penn Jillette si aggira sul palcoscenico blaterando in modo esagitato qualcosa riferito alla storia dei due mondi, difficile capre tutte le sue parole, ma l’atmosfera che si respira sembra davvero averci catapultato “altrove” … esattamente dove i quattro “non-bulbi” volevano portarci con questo rito quasi sciamanico di cui siamo protagonisti passivi.
Tutto fila via liscio senza pause e senza intoppi, con una naturalezza seconda solo ad uno spettacolo teatrale di terza o quarta replica … a parte forse qualche tipica vibrata lamentela sonora del pubblica generata dal comportamento maleducato delle prime file (ovviamente ed italianamente abusivamente) in piedi ad oscurare la visuale alle file successive.
Ad un certo punto, quando la storia delle “talpe” sta per concludersi la scena si anima e Jillette appare sul proscenio visibilmente esagitato ed inizia ad urlare qualcosa di non ben comprensibile, relativo ad un compenso troppo basso, ad un trattamento professionale poco adeguato. Tutto sembra molto “vero” e “credibile”, tanto che dalpalco Penn scende addirittura immediatamente davanti alle prime file e continua ad inveire contro il palco fino a quando non viene afferrato da tre energumeni (rigorosamente con naso-baffi-occhiali) che lo trascinano sul palco e lo legano ad una sedia dopo averlo imbavagliato.
Qualche minuto di suspance, poi un bizzarro balletto cattura l’attenzione mentre Jillette viene portato via legato ed imbavagliato alla sedia.
E’ la fine dello spettacolo con tanto di sipario che viene calato senza fretta.
Ci guardiamo ancora increduli, nella speranza che davvero non si sia trattato della conclusione dell’intero concerto … e dopo qualche minuto si illumina nuovamente il palcoscenico ed ecco arrivare sul palco i quattro “eyeballs” in tuxedo d’ordinanza … è il momento del bis “Satisfaction” che finalmente ci mostra più in luce i quattro misteriosi cavalieri dell’apocalisse sonora (mantenendone comunque rigorosamente celate le sembianze all’interno dei quattro giganteschi bulbi oculari). E’ davvero spassoso vedere letteralmente fatta-a-pezzi una canzone simbolo della musica giovanile di qualche decade addietro (che di fatto completa l’opera di santificazione della stessa iniziata qualche anno prima con la versione De-evoluta da Akron).
Ma è solo il preludio ad un fantastico finale collettivo.
Infatti dal fondo del palcoscenico iniziano ad avvicinarsi molte persone (naso-baffo-occhiale munite) che portano con loro ognuno una bandiera. Sono davvero tanti … sicuramente molti di più di tutti i vari protagonisti della serata (tra tecnici, ballerini e security) visti all’opera … e tra loro c’è anche il narratore Penn Jillette, evidentemente liberato dalla messa in scena della sua costrizione coatta.
Sulle note maestose di “Happy Home” tutte queste bandiere lentamente si raggruppano al centro della scena mentre altre bandiere compaiono ai lati del palco e la luce dall’alto diventa ancora più abbagliante in un crescendo che termina improvvisamente facendo piombare nel buio tutta la scena.
Un momento davvero indimenticabile.


domenica 15 febbraio 2015

Roger Bunn (1942 - 2005)

Nato nel 1942, trascorre l’infanzia in un ricovero per orfani di guerra. Alla fine degli anni ’50 si appassiona di musica, in particolare è parte della scena “skiffle” di Norwich con la band The Saints.

Dopo alcune esperienze come componente di varie band locali, si sposta ad Amburgo e intraprende la stessa “gavetta” di altri personaggi ben noti della contemporanea scena musicale europea (ma evidentemente con risultati diversi). Suona la chitarra nel gruppo di Wee Willie Harris che prenderà il posto dei Beatles allo Star Club.

Tornato in patria forma una soul band The Bluebottles (con Mike Patto) con cui gira l’Inghilterra facendo da opening per personaggi del calibro di Manfred Mann, The Animals. Appassionato di jazz (e in particolare con una quasi ossessione per Charlie Parker) trascorre moltissimo tempo al Ronnie Scott jazz club.

Nel frattempo la sua carriera di musicista lo porta a lavorare con Graham Bond, Zoot Money, Marianne Faithfull incrociando saltuariamente anche Jimi Hendrix e perdendo l’opportunità di raggiungere i Bluesbreakers di John Mayall a vantaggio di un giovanissimo Mick Taylor.

Con la sua nuova band Giant Sun Trolley suona spessissimo nelle serate lisergiche dell’UFO club con i molto più noti Soft Machine, Pink Floyd, Crazy World of Arthur Brown e Procol Harum. Come molti protagonisti di quella particolare scena musicale, Bunn fa uso di pesanti “integratori chimici” per stimolare le sue esperienze artistiche, circostanza questa che più avanti nel tempo lo porterà a soffrire di una totale perdita della propria memoria dei ricordi relativi alla sua vita che lo accompagnerà fino all’inizio degli anni ottanta.

Dopo un periodo relativamente lungo trascorso viaggiando tra la Turchia ed il medio oriente Bunn ritorna in patria e forma una coraggiosa band (che adesso catalogheremmo “ethno-rock”) chiamata Djinn che ha avuto il “merito” di offrire ad un giovanissimo David Jones (later Bowie) una breve permanenza nell’organico che ha prodotto la singolare circostanza di aver permesso allo stesso Jones di utilizzare un suo brano “Life is a circus” nel proprio repertorio per anni.

A fine del 1969 Paul McCartney, che lo aveva conosciuto nel comune periodo “amburghese”, gli offre l’opportunità di utilizzare temporaneamente parte dell’attrezzatura degli Apple studios in Baker Street per produrre un demo che successivamente si sarebbe evoluto e sarebbe diventato “Peace of mind” suo unico disco solista pubblicato a fine del ’69 dalla succursale olandese dell’etichetta Philips e registrato con musicisti olandesi e la Dutch Metropole Orchestra.

Questa uscita discografica non porta una grande popolarità ma offre comunque a Bunn prima di entrare a far parte del gruppo Piblokto! (ensemble proto-progressive post-beat dell’ex paroliere dei Cream Pete Brown) e successivamente l’opportunità di essere notato da una gruppo di ragazzi intenzionati a formare con lui un gruppo dal bizzarro nome “Roxy Music”. Una ghiotta opportunità a cui però rinuncia per la sua sola orgogliosa ostinazione a non assecondare l’opinione di Brian Ferry che non sopportava il fatto che si fosse fatto crescere la barba. Davanti alla ennesima perentoria richiesta di Ferry di cambiare il suo look, Bunn decide di risolvere il problema lasciando il gruppo solo poche settimane prima che lo stesso venga scritturato da una major discografica (una circostanza davvero fortunata per tale Phil Manzanera …).

Dopo quella esperienza Bunn abbandona quasi completamente la scena musicale (se si fa eccezione per qualche saltuaria collaborazione con Mike, il fratello minore di Paul McCartney, Davy Graham, Peggy Seeger e lo Spontaneous Music Ensemble), diventa politicamente molto attivo occupandosi lavorando per numerose associazioni di volontariato contro l’apartheid e contro il traffico internazionale di sostanze stupacenti.

Nel 1994 fonda la Music Industry Human Rights Association.

Scompare improvvisamente nel 2005 completamente dimenticato dalla comunità di musicisti britannici ed internazionali.

venerdì 13 febbraio 2015

... il terzo fratello

"Why can't we play today?
Why can't we stay that way?"
(Remember a day - Richard Wright 1968)

Una volta ricordo di aver definito con degli amici Richard il TERZO fratello WRIGHT per la straordinaria capacità di far VOLARE le emozioni nei cuori dei tantissimi appassionati dei PINK FLOYD (ed anche in moltissimi inconsapevoli ascoltatori distratti che involontariamente avranno provato una qualche emozione nel sentire le sue magiche note magari accompagnare uno spot pubblicitario qualsiasi o un reportage scientifico o giornalistico).

Non sono state molte le composizioni incluse nel repertorio della band e firmate dal solo Wright, ma il suo contributo al "suono" dei Floyd è assolutamente essenziale e paritario a quello degli altri tre Se esistesse una sorta di “giustizia creativa", forse gli si dovrebbero attribuire molti più meriti di quanto la gli siano stati riconosciuti in effetti.

Un esempio? … provate ad ascoltare la versione MONO di "Interstellar Overdrive” … l'inno dell'UFO CLUB nella stagione lisergica di quei Pink Floyd e vi renderete subito conto che l'alone sonoro su cui volteggia la chitarra "al vetriolo" (o al “mandrax", dipende) di Barrett è semplicemente una straordinaria invenzione "ambient ante litteram" di un Richard Wright alle prese con un organetto elettronico ed un echo Binson. La versione MONO rende molto più evidente il suo contributo alla realizzazione di un brano diventato presto leggendario nella nuova musica giovane della seconda metà del secolo scorso.

Ed è solo UNO degli esempi ... gli altri sarebbero troppi per essere elencati qui … anche se non posso proprio esimermi dal citare la sezione finale di "Saucerful of secrets" ("Celestial voices") o la struggente introduzione al piano riverberato di "Echoes", o ancora il movimento finale di "Wish you were here", dove tutto ciò che si è sentito fino a quel momento si perde nel nulla di una (forse confortante) malinconica rassegnazione.

Ma i suoi brani dimostrano allo stesso tempo una straordinaria capacità creativa nel sapersi anche inserire con indubbia personalità tra le maglie compositive di due (prima) o tre (poi) ingombranti compagni di viaggio. Nelle sue dolcissime "song" offre momenti di pausa dalle angosce di Waters, ma è pronto ad aggredire l’ascoltatore con una violenza sonora inaspettata quando riversa tra i solchi del disco UMMAGUMMA 4 feroci improvvisazioni dedicate all'interminabile condizione di Sisifo. Il mellotron diventa uno strumento che non viene usato per costruire artifizi di arrangiamento neoclassico, ma Ë una vera arma sonora per esprimere creatività pura.

So long, Richard Wright.

giovedì 12 febbraio 2015

SYLVIA HALLETT - Let's fall out (1994)






















... Sylvia Hallett è un ennesimo esempio di patrimonio del mondo musicale degli ultimi trent’anni che passa sistematicamente inosservato anche ai più volonterosi ricercatori di suoni sperimentali e contaminazioni musicali multilivello.

E’ dalla fine degli anni settanta che questa eccellente musicista inglese lavora a contatto con musicisti dell’intellighenzia sonora d’oltremanica e non solo, collaborando a numerosi progetti con illustri colleghi quali Lol Coxhill, Maggie Nicols, Phil Minton, Evan Parker o gli ensemble Accordions Go Crazy, LaXula, British Summer Time Ends, Arc e The London Improvisers Orchestra.

Violinista di primo strumento, ma in realtà una vera e manipolatrice di suoni e supporti audio, ha costantemente portato la sua prospettiva musicale verso traiettorie originali e sapientemente in equilibrio tra provocazione sonora, scrittura tradizionale e tradizione popolare.

Alle elaborazioni soniche, Sylvia Hallett aggiunge anche la sua voce … non una “voce” particolare, non certo capace dei virtuosismi della sua (quasi) collega Iva Bittova, ma proprio nella “normalità” del suo timbro si nasconde uno dei valori di preziosa espressività naturale che quando viene in contatto con stridii laceranti di corde graffiate dal suo archetto riporta tutta la dimensione ad una umanità di rara bellezza ed efficacia.

A volte è possibile fare un paragone anche con il crooning di Ivor Cutler (genio obliquo ed incompreso d’Albione) e nella mansueta e composta dimensione di voce-strumento e rumori ambientali tutto sembra estremamente naturale e collocabile nello spirito più traditional e folk. Ed invece quella di Sylvia Hallett è musica che si protende verso una forma d’avanguardia insinuante e sempre pronta a prendere il sopravvento, pronta cioè a cancellare la fragile resistenza delle tradizioni popolari a vantaggio di oblique miniature di un futuro grottesco e fulminante.

“Let’s fall out” del 1994 contiene tutte queste caratteristiche e molte altre sfumature che sono lasciate alla sensibilità individuale dell’ascoltatore, alla sua disponibilità ad essere preso per mano e portato a spasso in un parco di divertimenti anomalo, dove lo stesso significato di “divertimento” deve essere ridefinito.

Un piccolo capolavoro, prezioso e dimenticato come solo i piccoli (ma in realtà grandi) capolavori sembrano essere destinati a rimanere.







mercoledì 11 febbraio 2015

Robert Rich - Sunyata (1981)

Riavvolgiamo il nastro immaginario e ritorniamo al 1981, agli albori di una “certa” nuova elettronica, alle prime audio estensioni della filosofia del “suono d’ambiente” sviluppatesi dalla teorizzazione Budd/Eniana e declinate con uno spirito “sidereo” fatto di echi lontani di tempi dilatati e tanto, tanto, tanto spazio evocato intorno.

Ascoltando questo primo esperimento sonoro di Robert Rich, questi due lunghi “drones” elettronici sospinti in uno spazio virtuale dell’immaginazione più dilatato e vicino alla percezione di un qualche misterioso “vuoto”, 

mi torna in mente il principio primo della “musique d’ameublement” elaborato dal leggendario Eric Satie e realizzo - una volta di più e con molta soddisfazione - che questa "musica che non ha bisogno di essere ascoltata” in effetti riempie lo spazio circostante e diventa “compagna di viaggio” nella sua dimensione "discreta", trasformandosi in etereo profumo sonoro che pervade lo spazio delle nostre azioni (o della nostra immobile concentrazione).

Qui, il suono non racconta nient’altro che se stesso, condizionando l’ascoltatore ad ascoltare nient’altro che se stesso … una perfetta dimensione sospesa in un equilibrio che ricorda molto la vasca di deprivazione sensoriale che Ken Russell racconta in un suo film di inizio 1980 (Altered States - Stati di Allucinazione).

Certo, questi suoni algidi non inducono le allucinazioni ancestrali del protagonista del claustrofobico film del geniale Russell ma proprio per questa dimensione apparentemente neutrale offrono alla coscienza la possibilità di proiettare e proiettarsi in tutte le direzioni possibili.

In caso di mancanza di auto-suggestioni in partenza è comunque possibile cercare di farsi coinvolgere dalle tanto evocative quanto volubili possibili interpretazioni di titoli di brani quali “Dervish dreamtime” o “Oak spirits” … che - volendo - già da soli indicano il punto di partenza, il luogo immaginario da dove iniziare eventualmente il … viaggio.

Robert Rich - Filaments (2015)

Musica da "respirare". L'esperienza sonica di Robert Rich lo ha portato sempre di più verso una prospettiva più "europea", certamente più in debito con l'elettronica minimale tedesca della metà degli anni settanta qui semplicemente rivisitata ed arricchita con quella tipica spazialità che proviene da suggestioni più propriamente legate al primissimo movimento "new age" USA (di cui Rich è stato sicuramente uno degli esponenti maggiori). Sequencers in pulsazione ipnotica e lunghe note pseudo orchestrali abitano la quasi totalità del contenuto (9 tracce) di questo lavoro che non aggiunge nulla di nuovo alla poetica musicale di Rich, ma si inserisce perfettamente nel suo eccellente percorso artistico.