... di incubo in incubo questo concept datato 1992 era fino a qualche settimana fa l'ultimo sforzo creativo di Roger Waters, ma riascoltato oggi racconta (in cronologia rovesciata) una avvenuta ulteriore crescita di consapevolezza dell'autore artefice del recentissimo "Is this the life we really want?".
Che Waters non sia un entusiasta del suo tempo e che aspiri sempre a ricordarci le miserabilia di questo mondo umano non è certo una novità ... ed in fondo è anche per questo che di generazione in generazione l'interesse per la sua prospettiva escatologica claustrofobica e pessimista diminuisce al cospetto di un mondo fatto di velocità e superficiali ( o semplicemente essenziali) valutazioni esistenziali.
A maggior ragione la cosa si rende evidente quando il "concetto" alla base di questo lavoro è proprio l'indifferenza, la superficialità, l'assuefazione al brutto, al male che l'attuale contemporaneità ci racconta come un valore ormai acquisito da una (o più) generazioni senza più alcuna volontà di combattere, riflettere, giudicare ed indignarsi.
Così ascoltando questa ennesima alienante dissertazione musicale senza speranza ci si confronta nuovamente con il sogno fallito di un'altra generazione, quella post-psichedelica degli anni settanta in cui - grazie all'arte - sembrava possibile evolvere tutto verso una migliore e più giusta percezione dell'umanità (occidentale, ovviamente) ...
Nella feroce verbosità di questo disco è scaricata tutta la rabbia di questa frustrazione esistenziale condita da traumi infantili, senso di onnipotenza giovanile e rassegnazione matura; ovvero tutto ciò che ha caratterizzato la vita dell'autore in questione perché ancora una volta è indispensabile tenere ben presente la forte connotazione autobiografica quando si ascolta una qualsiasi proposta musicale di Roger Waters (con, e soprattutto senza, i Pink Floyd).
La musica? ah già, la musica!
Echi tardo-floydiani (in "Watching TV" gli "echoes" sono addirittura VERI) fatti di grandi cori femminili, rumori alieni, cani abbaianti (quasi fossimo tutti con Paul Newman sul set di "Quintet" di Altmaniana memoria), switching frequenti di canali televisivi (che ci ricorda ancora una delle sue ossessioni già raccontate con il verso scritto ... "sul muro" "I got thirteen channels of shit on the T.V. to choose from"). Certo, Jeff Beck e la sua chitarra si distingue per la sua presenza (per quanto trovo discutibile la scelta di chiedergli di essere più "gilmouriano" dell'originale) ma anche riascoltandolo per l'ennesima volta mi rendo conto che non è la musica ad essere il focus di questo album (per quanto assurdo possa sembrare).
"Amused to death" (apparente omaggio al libro di Neil Postman "Amusing ourselves to death") è un'opera che non lascia spazio alla speranza e paradossalmente pretende di intrattenere l'ascoltatore snocciolando lunghi elenchi di tristi rassegnate riflessioni ... al punto che mi è venuto forte il dubbio che il titolo dell'album abbia più a che vedere con un assonante "I am used to death" ed è in questa prospettiva che ancora oggi lo ascolto con grande rispetto ed attenzione.
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