Relegata ingiustamente all'oblio durante la sua stagione iniziale più creativa, la band americana ha fortunatamente riscosso un discreto successo a posteriori, quando qualcuno si è reso conto che davvero meritava una attenzione pari a quella riservata per i maggiori esponenti della musica progressive internazionale degli anni settanta.
Appare evidente che alcune scelte musicali presenti nel sound del gruppo sono marcatamente non-europee e figlie quindi di una certa "muscolarità" esagerata tipica dell'american way of proggin', ma è altrettanto chiaro che la stragrande maggioranza del prodotto proposto da Happy the Man sia tra le migliori cose uscite dal nuovo continente.
Crafty Hands prosegue lungo il solco tracciato dal primo formidabile album uscito solo un anno prima, mantenendone la freschezza e l'originalità dell'impasto sonoro (e del resto anche questo secondo capitolo è stato realizzato dallo stesso line-up e prodotto sempre da Ken Scott). Unica differenza (relativa) la presenza di un solo brano cantato (a differenza dei due già in HAPPY THE MAN) ma dal momento che non è certo la parte cantata l'elemento distintivo del gruppo, la ulteriore limitazione dello spazio vocale non sembra poi fare troppo la differenza ... sebbene ... a distanza di anni però varrebbe la pena chiedersi se è stata proprio la mancanza di comunicazione verbale a condizionare il risultato commerciale (davvero devastante in negativo) che la band ha dovuto subire nei primi (ed unici) tre anni di esistenza in attività.
Ad ogni modo la scrittura poliritmica e politimbrica di Wyatt e Watkins rimane la caratteristica più stimolante del suono di questo gruppo ed il materiale proprosto in CRAFTY HANDS è sicuramente all'altezza di quello pubblicato precedentemente.
Purtroppo l'avvenuta contemporanea affermazione internazionale del punk e della new wave ha reso poco interessanti gli esercizi di composizione virtuosa del gruppo che è stato quindi troppo velocemente dimenticato portando i suoi dischi a rimanere sepolti ed invenduti per anni.
Appare evidente che alcune scelte musicali presenti nel sound del gruppo sono marcatamente non-europee e figlie quindi di una certa "muscolarità" esagerata tipica dell'american way of proggin', ma è altrettanto chiaro che la stragrande maggioranza del prodotto proposto da Happy the Man sia tra le migliori cose uscite dal nuovo continente.
Crafty Hands prosegue lungo il solco tracciato dal primo formidabile album uscito solo un anno prima, mantenendone la freschezza e l'originalità dell'impasto sonoro (e del resto anche questo secondo capitolo è stato realizzato dallo stesso line-up e prodotto sempre da Ken Scott). Unica differenza (relativa) la presenza di un solo brano cantato (a differenza dei due già in HAPPY THE MAN) ma dal momento che non è certo la parte cantata l'elemento distintivo del gruppo, la ulteriore limitazione dello spazio vocale non sembra poi fare troppo la differenza ... sebbene ... a distanza di anni però varrebbe la pena chiedersi se è stata proprio la mancanza di comunicazione verbale a condizionare il risultato commerciale (davvero devastante in negativo) che la band ha dovuto subire nei primi (ed unici) tre anni di esistenza in attività.
Ad ogni modo la scrittura poliritmica e politimbrica di Wyatt e Watkins rimane la caratteristica più stimolante del suono di questo gruppo ed il materiale proprosto in CRAFTY HANDS è sicuramente all'altezza di quello pubblicato precedentemente.
Purtroppo l'avvenuta contemporanea affermazione internazionale del punk e della new wave ha reso poco interessanti gli esercizi di composizione virtuosa del gruppo che è stato quindi troppo velocemente dimenticato portando i suoi dischi a rimanere sepolti ed invenduti per anni.
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