“Anybody” (1999)
“Rose Polenzani” (2001)
“August” (2004)
Di voci femminili la musica americana (ed internazionale, ovviamente) ne ha proposte sempre molte. La tradizione della cantautrice alter ego del sempre affascinante “hobo” errante annovera tra le sue fila esempi di grande e straordinaria potenza evocativa e creativa fin dalla metà della decade cruciale di fine novecento che furono gli anni sessanta.
Dalle figure eteree ed inarrivabili come Linda Perhacs all’impegno politico di Joan Baez, dalla forza espressiva della voce dilaniante di Janis Joplin alla maledizione tossica della povera Karen Dalton, dalla lucida affascinante intelligenza commerciale di Carole King alla spigolosa vocalità jazzata di Annette Peacock, l’altra meta del cielo musicale d’America davvero brilla di stelle note e meno note in grado di disegnare memorabili scie luminose a squarciare spesso un troppo oscuro autocompiacimento maschile.
Sono ancora tantissimi i nomi che anche nelle nuove generazioni hanno contribuito e stanno ancora contribuendo a mantenere viva la vis creativa femminile e quindi probabilmente potrà sembrare limitativo scegliere la giovane voce di ROSE POLENZANI per rappresentare tutte le meraviglie dell’universo parallelo … limitativo forse, ma significativo anche. Per nulla affascinante – o meglio – assolutamente non interessata a cercare nell’aspetto fisico accativante motivo di interesse nel possibile pubblico, la giovane Rose (nata a Waukesha, Wisconsin nel 1975) inizia a frequentare il circuito folk indipendnete dell’area di Chicago ed il risultato è immediatamente disponibile quando nel 1998 in modo del tutto autonomo ed autofinanziato, pubblica una sua prima raccolta di canzoni intitolata “Dragersville” caratterizzata da atmosfere desolate ed oscure, figlie di una ricerca della luce appena iniziata.
Sempre nel 1998 partecipa al festival “esclusivamente al femminile” del Lilith Fair (voluto ed organizzato dalla straordinaria cantautrice canadese Sarah McLachlan) mentre l’anno successivo si fa notare nell’ambito delle manifestazioni a margine del celeberrimo Sundance Film Festival di Robert Redford. Proprio all’indomani dell’esperienza e della visibiltà ottenuta grazie al palcoscenico della più importante manifestazione cinematografica indipendente di questi ultimi anni, Rose pubblica (per la Daemon Records) “Anybody” splendido esempio di profonda sincerità emotiva raccontata in quasi totale solitudine. Eppure esiste nella musica di questa giovane cantautrice un certa quale dolcezza che lascia tramortiti per la delicatezza con cui si insinua anche nelle canzoni più tristi e malinconiche (ascoltare “Look no hands” per credere).
E non esiste nemmeno un singolo momento che possa sembrare di mera autocompiaciuta introversione, anzi. Ed infatti l’album successivo, intitolato semplicemente “Rose Polenzani” e prodotto nel 2001 grazie ancora alla illuminata ospitalita della Daemon Records, è una specie di incontro con altri musicisti che crea un’atmosfera di grande e vera emozione creativa. Dopo anni trascorsi a registrare con le proprie limitatissime attrezzature amatoriali, finalmente Rose collabora con una vera band per attraversare (portando comunque con se le sue atmosfere acustiche così personali) un ambiente musicale più vicino ad una forma di indie-rock certamente più aggressivo nei toni, ma egualmente evoluto e raffinato. Come troppo spesso accade ormai un mercato distratto e scarsamente interessato ai “contenuti” e alle “emozioni vere” lascia scivolare via queste meravigliose produzioni annullandole e relegandole nel limbo delle tante “occasioni perdute”.
Per questo motivo Rose registra nuovamente in solitudine un disco clamoroso, perfetto nella sua inquieta serenità. “August” (uscito in totale autoproduzione nel 2004) è a tutt’oggi probabilmente il migliore esempio dell’adamantino talento della ragazza di Waukesha.
Da quel momento la carriera sua carriera si è spesso incrociata con altre cantautrici della sua stessa generazione sfociando in pregevoli collaborazioni palesemente fondate sul reciproco rispetto e condivisione emotiva (tra tutte segnalerei quella con un’altra meravigliosa cantante della nuova scena americana, un’altra “rosa” … ovvero ROSE COUSIN). Un talento capace di emozionare davvero.
“Rose Polenzani” (2001)
“August” (2004)
Di voci femminili la musica americana (ed internazionale, ovviamente) ne ha proposte sempre molte. La tradizione della cantautrice alter ego del sempre affascinante “hobo” errante annovera tra le sue fila esempi di grande e straordinaria potenza evocativa e creativa fin dalla metà della decade cruciale di fine novecento che furono gli anni sessanta.
Dalle figure eteree ed inarrivabili come Linda Perhacs all’impegno politico di Joan Baez, dalla forza espressiva della voce dilaniante di Janis Joplin alla maledizione tossica della povera Karen Dalton, dalla lucida affascinante intelligenza commerciale di Carole King alla spigolosa vocalità jazzata di Annette Peacock, l’altra meta del cielo musicale d’America davvero brilla di stelle note e meno note in grado di disegnare memorabili scie luminose a squarciare spesso un troppo oscuro autocompiacimento maschile.
Sono ancora tantissimi i nomi che anche nelle nuove generazioni hanno contribuito e stanno ancora contribuendo a mantenere viva la vis creativa femminile e quindi probabilmente potrà sembrare limitativo scegliere la giovane voce di ROSE POLENZANI per rappresentare tutte le meraviglie dell’universo parallelo … limitativo forse, ma significativo anche. Per nulla affascinante – o meglio – assolutamente non interessata a cercare nell’aspetto fisico accativante motivo di interesse nel possibile pubblico, la giovane Rose (nata a Waukesha, Wisconsin nel 1975) inizia a frequentare il circuito folk indipendnete dell’area di Chicago ed il risultato è immediatamente disponibile quando nel 1998 in modo del tutto autonomo ed autofinanziato, pubblica una sua prima raccolta di canzoni intitolata “Dragersville” caratterizzata da atmosfere desolate ed oscure, figlie di una ricerca della luce appena iniziata.
Sempre nel 1998 partecipa al festival “esclusivamente al femminile” del Lilith Fair (voluto ed organizzato dalla straordinaria cantautrice canadese Sarah McLachlan) mentre l’anno successivo si fa notare nell’ambito delle manifestazioni a margine del celeberrimo Sundance Film Festival di Robert Redford. Proprio all’indomani dell’esperienza e della visibiltà ottenuta grazie al palcoscenico della più importante manifestazione cinematografica indipendente di questi ultimi anni, Rose pubblica (per la Daemon Records) “Anybody” splendido esempio di profonda sincerità emotiva raccontata in quasi totale solitudine. Eppure esiste nella musica di questa giovane cantautrice un certa quale dolcezza che lascia tramortiti per la delicatezza con cui si insinua anche nelle canzoni più tristi e malinconiche (ascoltare “Look no hands” per credere).
E non esiste nemmeno un singolo momento che possa sembrare di mera autocompiaciuta introversione, anzi. Ed infatti l’album successivo, intitolato semplicemente “Rose Polenzani” e prodotto nel 2001 grazie ancora alla illuminata ospitalita della Daemon Records, è una specie di incontro con altri musicisti che crea un’atmosfera di grande e vera emozione creativa. Dopo anni trascorsi a registrare con le proprie limitatissime attrezzature amatoriali, finalmente Rose collabora con una vera band per attraversare (portando comunque con se le sue atmosfere acustiche così personali) un ambiente musicale più vicino ad una forma di indie-rock certamente più aggressivo nei toni, ma egualmente evoluto e raffinato. Come troppo spesso accade ormai un mercato distratto e scarsamente interessato ai “contenuti” e alle “emozioni vere” lascia scivolare via queste meravigliose produzioni annullandole e relegandole nel limbo delle tante “occasioni perdute”.
Per questo motivo Rose registra nuovamente in solitudine un disco clamoroso, perfetto nella sua inquieta serenità. “August” (uscito in totale autoproduzione nel 2004) è a tutt’oggi probabilmente il migliore esempio dell’adamantino talento della ragazza di Waukesha.
Da quel momento la carriera sua carriera si è spesso incrociata con altre cantautrici della sua stessa generazione sfociando in pregevoli collaborazioni palesemente fondate sul reciproco rispetto e condivisione emotiva (tra tutte segnalerei quella con un’altra meravigliosa cantante della nuova scena americana, un’altra “rosa” … ovvero ROSE COUSIN). Un talento capace di emozionare davvero.
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